Cinzia Sorvillo

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Cinzia Sorvillo, all’anagrafe Vincenza, è nata a Napoli nel 1981. Cresciuta nella provincia di Caserta, dopo gli studi si è trasferita a Napoli, dove attualmente vive col marito e la figlia. Laureata in Lettere all’ Università di Napoli ‘Federico II’, è stata borsista presso l’Istituto di Studi Storici ‘Benedetto Croce’, dove ha proseguito gli studi avviati per la tesi di laurea. Ha conseguito un Dottorato in ‘Filologia, Linguistica e Letteratura’ presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’ e ha collaborato per alcuni anni con la ‘Rivista di Studi Danteschi’ della Salerno Editrice. Oggi è insegnante di materie umanistiche alle scuole medie e collabora con il gruppo Divergenze, Associazione per le pratiche della cura e della clinica fondata da Massimo Recalcati. Ama leggere e promuove iniziative scolastiche che favoriscono l’incontro degli studenti con il libro, nella convinzione che la lettura apra mondi e aiuti gli alunni nella conoscenza di se stessi e del loro desiderio.

Black Boys, la seduzione dell’odio

in Letture in classe by
Perché dobbiamo leggere Black Boys di Gabriele Clima in classe.

Chi insegna sa bene che non può esimersi dall’affrontare con i propri alunni argomenti scottanti come il dolore della perdita, l’odio, la vendetta, la discriminazione, la violenza, la morte; sa bene che non può non srotolare i fili delle emozioni più perturbanti che nella vita di tutti noi si dispiegano, nonostante noi.

Siamo vulnerabili, tutti piegati da un vulnus che esiste proprio perché siamo vivi e, nonostante il mito di onnipotenza in cui tutti noi siamo cresciuti, l’imprevedibilità della vita può abbattersi in qualsiasi momento su chiunque.

Con i nostri alunni quindi credo sia doveroso provare a dipanare questa massa scottante proprio perché ci attraversa, anche se negli ultimi anni l’abitudine al politicamente corretto è approdata anche nella scuola. Ma come farlo? Attraverso il sermone del docente, il quale spiega che odiare è sbagliato, che amare e perdonare è bello e che la vendetta è da delinquenti?

Io ho sempre pensato che siano le storie, quelle raccontate in un libro o quelle che si vivono attraversando un film o una serie tv, a venirci incontro; sono le storie ad aiutarci a guardare fuori e dentro, che ci leggono  e che hanno la straordinaria capacità di dare i nomi alle cose, anche a quelle più inverbalizzabili.

Come dice Recalcati, leggere…

“è un’esperienza che può coinvolgere profondamente il lettore: quando leggiamo un libro possiamo fare l’esperienza di sentirci nello stesso tempo letti dal libro che leggiamo. Sicché impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto. Anche in questo senso la lettura è un’attività dell’io che però implica sempre l’incidenza dell’inconscio […] trovo nel libro le parole per dire quello che oscuramente vivevo e pensavo senza essere in grado di nominarlo
M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri.

E Black Boys è uno di quei libri che ha questo potere. Un libro che in superficie ha l’impostazione del romanzo per ragazzi, per via del linguaggio scorrevole e immediato, e perché i suoi personaggi sono ragazzi, ma la ricchezza dei temi e la profondità con cui vengono trattati rendono questo romanzo adatto a tutti.

Il protagonista è Alex, un ragazzo come tanti, con una famiglia normale e una vita normale, ma un giorno accade che nella sua vita irrompe il trauma della perdita. Un incidente stradale gli porta via il padre, lascia alla madre delle lesioni permanenti e lui è vivo per miracolo. L’incidente è stato causato da uno scontro con un furgone guidato da un uomo di colore, un “nero” di cui Alex conosce solo il nome: Mbaye.

Tutto cambia nella sua vita e a 16 anni Alex deve fare i conti con il lutto e la separazione. Il dolore è insopportabile, le parole non servono, anche se sono le parole di quelli che il lutto lo hanno già attraversato, perché tutti siamo diversi e ognuno ha “un suo modo”. Le possibilità che si aprono di fronte ad Alex sono due, una lunga e tortuosa, un’altra semplice e in qualche modo anche appagante che nega i tempi lunghi e labirintici del lutto e che ti offre anche la sensazione della potenza: questa è la strada dell’odio, la strada della vendetta.

Alex vuole trovare il responsabile di quell’incidente, quell’uomo che, secondo lui,  continua a vivere la sua vita come se nulla fosse mai accaduto, mentre la sua vita e quella di sua mamma sono state distrutte. Alex vuole liberare quel fluido di rabbia e dolore che lo schiaccia, colpendo quell’uomo, urlandogli contro, pensa che quella sia giustizia, ma non sa come fare.

È cosi che si ritrova in un gruppo di ragazzi che quel ‘nero’ potrebbero trovarlo e questi sono i Black Boys. I Black Boys fanno quello che nessuno ha il coraggio di fare: “ripuliscono le strade dalla merda, cercano i neri, zingari, immigrati. E gli fanno capire che non sono i benvenuti”. Eppure Alex non è razzista, non gli importa nulla del colore della pelle di Moussa, lui vuole solo vendicarsi.

Ma la vendetta è così, si lascia guidare dalla via breve dell’odio, quella che ti fa credere che esista un Altro da eliminare per risolvere il problema, quella che ti fa credere che il mondo si divida in maniera semplicistica in due forze contrapposte e irriducibili.

Alex si ritrova pertanto in questo gruppo e tocca con mano il potere della violenza. Il capo del gruppo, Ferenc, si offre di aiutarlo a trovare il Nero, ma vuole qualcosa in cambio: Alex dovrà partecipare alle spedizioni punitive che loro fanno. È così che Alex si ritrova ad assaporare il senso apparente di potere che ti offre la violenza, un potere però che in lui si sbriciola fra le mani non appena viene compiuto.

Non ci impiegherà molto Alex a capire che non è quella la strada, che l’esercizio della violenza non te lo fa passare il dolore, che la strada della vendetta è risolutiva solo all’apparenza perché il dolore per l’assenza non passa così. Ma uscire da un gruppo di squadristi non sarà facile e le azioni compiute hanno sempre delle conseguenze.

Questo libro affronta in maniera così cristallina tanti di quei temi, da quelli intimi ed eterni relativi al singolo, a quelli sociali e politici attuali, che leggerlo in classe con adolescenti come Alex (ma anche un po’ più piccoli), può essere solo un’occasione di crescita.

  1. Leggere questo libro è per esempio fare educazione civica e storia allo stesso tempo perché ci consente di capire come è facile la logica dei populisti e della politica di pancia.

Populista ed estremista è Ferenc, per esempio, che incarna perfettamente non solo il leader dello squadraccia, ma anche l’aspirante capopopolo, perché sa che per avere successo  è necessario ‘dopare’ le masse facendogli credere che l’origine di tutti i problemi siano i diversi.

“No, Alex, il punto è un altro. Tu, la gente, la devi caricare, la devi far incazzare. Non devi darle Pericle, devi darle il doping. […] Quello che si dà agli sportivi. Dai il doping alla gente, Alex, falla incazzare, falla andare su di giri. E poi le dai un motivo per essere incazzata.

“Gli immigrati?” risponde Alex.

Ferenc sorride e risponde “Lo vedi, allora, che capisci?”.

  • Ma leggere questo libro è anche parlare di amore.

Amore per chi resiste, come la mamma di Alex, una donna forte perché ha imparato a fare delle crepe del dolore qualcosa di prezioso, che si è spezzata però ha saputo resistere alla fragilità.

Amore per chi non c’è più ma con cui è possibile tessere dei fili invisibili.

Amore per l’altro, perché se attraversiamo la strada lunga del perdono, potremmo scoprire che la realtà è molto più sfaccettata  di quanto immaginavamo e che quello che avevamo definito Nemico, forse non lo è affatto.

Immagine di copertina: da Libreria Volare

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Se questa è una donna

in Approcci Educativi/Attività di classe by
Una proposta di lezione, senza volto e senza voce come è la scuola in questi giorni, per parlare della donna nella nostra società.

Otto Marzo 2020. Per introdurre questo lavoro voglio cominciare dalla data perché, in giorni strani come questi, è importante soffermarsi sui significati che si dispiegano da questi numeri.

Se ci fermiamo al giorno e al mese, subito la mente va alla ricorrenza dell’8 Marzo e a tutte le attività, le celebrazioni, articoli, film ed eventi che sempre si svolgono per questa ricorrenza.

Se invece passiamo all’anno, ecco che vanno in secondo piano tutte le celebrazioni e oggi, come domani, penseremo invece a quello che sta accadendo nelle nostre vite.

In questi giorni così precari e così inediti per noi del mondo occidentale, che non abbiamo mai conosciuto la guerra, mai il vero senso della vulnerabilità collettiva, mai il senso dell’imprevedibilità della vita e dello stare al mondo.

Ebbene, come in questi numeretti si respira tutta la stranezza di questi giorni, così sarà questa giornata. E la domanda è:

“Ha senso parlare di donna in questo 8 Marzo 2020?”

Forse che parlare di donna e di diritti, di visione della donna nel presente e nel passato in questa giornata del 2020 sia fuori luogo, visto che ‘fuori’ il mondo sta pensando ad altro?

Da docente che in questi giorni sta sperimentando tutta la difficoltà del proporre argomenti e contenuti a dei ragazzi senza la mediazione della parola e del volto, ho pensato che invece una lezione sulla donna, sulla visione della donna nella nostra tradizione occidentale sia necessaria proprio perché è la Storia a essere necessaria, la conoscenza a essere necessaria, anche in tempi di coronavirus.

E se la parola-corpo non può esserci perché siamo tutti a casa, quale tipo di lessico può venirci in soccorso per parlare di donna senza rischiare di affondare nei soliti slogan da social? Come provare a far riflettere i ragazzi affinché possano allargare lo sguardo e porsi domande?

Così ho pensato di farmi aiutare dal lessico delle immagini, lo strumento che veicola, si incolla alle emozioni e ci orienta, senza spiegazioni e troppi orpelli.

In una puntata del programma di Lessico amoroso di Massimo Recalcati che l’anno scorso è stato proposto sulla Rai, il professore parlò di violenza e, mentre parlava, scorrevano dietro di lui delle immagini molto eloquenti.

Io fui colpita in particolar modo da un’immagine: una mamma con una catena al collo con attorno i suoi figli e le parole del professore si cristallizzarono in quella immagine lì.

Le immagini sono scalpelli che danno forma all’informe e quindi, con una piccola ricerca in rete, ho costruito Se questa è una donna con la piattaforma Adobe Sparke.

Dal lessico cristiano a quello della pubblicità moderna, i fotogrammi sembrano sempre gli stessi. E l’aspetto sadico dell’ideologia del patriarcato sembra allungare le sue propaggini fino a oggi.

Qui trovate la proposta di lezione: https://spark.adobe.com/page/N4w3SR7EfDpnp/

Il Natale HA più voci: laboratorio di scrittura

in Approcci Educativi/Attività di classe by
Cinzia Sorvillo ci racconta un laboratorio di scrittura creativa per una classe III della scuola media.

Parlando di scrittura creativa ci si domanda: come nasce un racconto polifonico? A volte in maniera casuale, inaspettata, non PROGRAMMATA; basta sapersi porre con spirito entusiasta  e costruttivo di fronte all’imprevedibile e all’inatteso che una classe e una lettura portano necessariamente con sé.

C’è stato un periodo in cui nella mia scuola abbiamo fatto i turni pomeridiani.  Il giorno in cui è questo racconto ha fatalmente preso vita erano le cinque del pomeriggio. Dalla finestra entrava il buio dei pomeriggi invernali e da lontano vedevamo accendersi le prime luci di case addobbate per il Natale.

Io e i miei alunni in quei giorni stavamo studiando il RACCONTO BREVE e insieme, sfogliano il nostro libro di antologia, ci siamo fermati sul celebre testo di Paul Auster, Il racconto di Natale di Auggie Wren.

Come noto, questo testo è un esempio di racconto nel racconto.

Protagonisti sono Paul Benjamin, il quale deve scrivere un racconto per il ‘New York Time’ e l’amico Auggie Wren, che si offre di raccontargli la miglior storia di Natale mai sentita. Una storia che da un lato mette in risalto l’intensa storia d’amicizia tra lo scrittore e il tabaccaio fotografo Auggie, dall’altro ci propone un racconto in cui prorompe la fatalità della vita, quella “musica del caso” che ritma in maniera inconfondibile le pagine di Auster.

In questo racconto nel racconto una coincidenza prende la forma di un incontro che trasforma la vita del protagonista: un incontro natalizio, casuale e inaspettato, che genera un cambiamento (in questo caso positivo).

Al termine della lettura, ho proposto così ai miei ragazzi di inventare una storia tutti insieme, partendo da un mio input e poi proseguendo la storia uno alla volta, a turno. Un laboratorio di scrittura creativa!

Ovviamente loro hanno accettato, come sempre, con entusiasmo. Il mio input è stato:

il protagonista è un maschio, è seduto al tavolo di un bar di un quartiere malfamato di New York e, per caso, incontra un altro ragazzo che gli cambierà il Natale.

I ragazzi hanno cominciato così a immaginare una storia.

 Io ho dato la parola in base a come si alzavano le mani e ho annotato su un quadernetto il racconto che stava venendo fuori. Purtroppo il suono della campanella ha interrotto la storia a metà, quindi ho proposto ai miei alunni di inventare dei finali singoli e di mandarmeli via mail.

È così che quindi, proprio perché ogni persona ha la sua voce e la sua storia, ognuno ha inventato il suo finale.

A me poi l’onere della selezione dei finali, che ho scelto solo in base a dei criteri di coesione e coerenza testuale e non di contenuto. Alla fine ho inserito il testo e alcuni finali sulla piattaforma gratuita SparkPage, che in questa classe ho insegnato a utilizzare per presentazioni di progetti e lavori di Storia.

Ne è uscita fuori una bella storia e nonostante i quattro finali proposti siano diversi, c’è un fil rouge che li accomuna. I ragazzi hanno immaginato:

  • una figura genitoriale che non ascolta la voce del figlio e la sua specificità altra da quello che l’adulto  vuole,
  • la solitudine del non essere ascoltati,
  •  la possibilità dell’incontro positivo, dell’incontro che offre una possibilità di cambiamento. 

Nella speranza che ognuno possa aprire e non chiudere lo sguardo agli incontri, auguro a tutti buon Natale con “Un incontro di Natale a New York”.

La Scuola come cura e antidoto alla chiusura in se stessi

in Approcci Educativi by
Cinzia Sorvillo ci accompagna in un viaggio alla scoperta della scuola, come antidoto all’iperconnessione e alla solitudine.

Vorrei partire da un bellissimo monologo scritto e interpretato da Lino Guanciale qualche giorno fa alla trasmissione Stati Generali della Dandini, sui ragazzi a scuola.

Il testo si apre con un’immagine, una visione, quella con cui noi adulti dipingiamo molto spesso i nostri ragazzi.

Li avete visti i ragazzi di oggi? I ragazzi che fanno le superiori, quelli delle medie? I bambini delle elementari pure.

Sono tutti sciatti, svogliati, sempre distratti, sembra sempre che non abbiano voglia di fare niente.

C’hanno sempre gli occhi su questi telefonini, le cuffiette alle orecchie, sembrano insensibili a tutto quello che gli sta attorno.

Per molti adulti e docenti, gli adolescenti di oggi appaiono proprio così. Se dovessi usare un’immagine, molto probabilmente la disegnerei anche io così. Una testa china su uno smartphone nello spazio chiuso delle pareti della propria stanzetta e immersa in un cyberspazio in cui si coltiva l’illusione di essere in un mondo pieno di contatti, ma in cui, in realtà, il contatto non c’è. Quanti camminano per strada con gli smartphone, mangiano una pizza ognuno col suo smartphone, giocano, ma ognuno col suo smartphone?! Ragazzi chiusi, immersi in una rete digitale che non consente relazioni se non attraverso il filtro dello schermo.

Ma questa non è la stessa immagine con cui potremmo rappresentare anche il mondo degli adulti? Genitori sempre piegati nello spazio virtuale della rete e conversazioni che si dispiegano nell’etere con la veemenza e l’ardimento di chi si sente potente perché protetto da uno schermo, potente perché non deve reggere lo sguardo dell’altro, l’incontro tra occhi e corpi, potente perché ha il tempo  di progettare risposte, pensieri e non rischia l’inciampo dell’errore, del non saper cosa dire.

Dietro uno schermo ci si sente potenti perché non si corre il rischio del confronto immediato, della domanda e soprattutto dell’imprevedibilità che ogni incontro reale e simmetrico nel tempo e nello spazio porta necessariamente con sé.

Siamo soli, ma con l’illusione di essere iperconnessi.

Nel suo nuovo libro “Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno“, Massimo Recalcati dimostra come i dati clinici oggi facciano emergere “nuove malattie psichiche, soprattutto tra le nuove generazioni, che condividono la caratteristica del ritiro, della introversione libidica, della sconnessione dai legami, del ripiegamento depressivo, della fobia sociale. […] Queste forme attuali del disagio contemporaneo sono ‘nuove melanconie’. Si tratta di una sofferenza che ha come tratto fondamentale il dominio della pulsione securitaria su quella erotica, della chiusura sull’apertura, della difesa sullo scambio. Una melanconia senza senso di colpa, senza delirio morale, senza autoflagellazione del soggetto sotto i colpi di una legge spietata; una nuova melanconia che suffraga la spinta della vita ad uscire dalla vita, a rifiutare la contaminazione inevitabile e necessaria della vita”.

Eppure esiste uno spazio, un luogo in cui, nonostante tutto, accadono continuamente incontri reali, uno spazio in cui nonostante gli edifici ormai troppo spesso fatiscenti e nonostante la volontà politica e sociale di distruggerne l’essenza, bambini, giovani, adulti, mamme, papà e anche nonni si incontrano con i loro corpi, i loro volti e le loro geografie.

Questo luogo è la scuola.

La condizione dell’essere studente peraltro attraversa e ha attraversato tutti. Tutti siamo stati in un passato recente o lontano degli studenti e tutti i cittadini di realtà che possano definirsi civili passano attraverso la scuola. Come l’essere figlio è una condizione che appartiene a tutti gli uomini, così quella dell’essere studente segna la vita di tutti e lascia segni che si incuneano sulla nostra pelle, definendone alcuni tratti che diventano parte di noi.

La scuola è quindi un segmento di vita fondamentale. Il luogo in cui avvengono i primi incontri con il mondo esterno alla famiglia, dove la lingua non è più quella intima della nostra casa e della nostra mamma, ma quella ‘straniera’ dell’Altro.

Alla luce di tutto questo, potremmo dunque considerare la scuola come antidoto alla chiusura e alla gabbia della rete?

Sì, ma solo se la scuola continuerà ad essere lo spazio in cui si potrà continuare a mantenere viva e centrale la fiamma dell’ora di lezione (vd. M.Recalcati, “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”).

Chi lavora nella scuola, sa quanto oggi l’ora di lezione sia diventata accessoria rispetto a tutto il resto. Scuola azienda e scuola delle competenze (per competenze io non intendo il senso originario e autentico di questa parola che porta in sé un significato splendido, ossia quello di andare insieme, far convergere in un medesimo punto, mirare ad un obiettivo comune, nonché finire insieme, incontrarsi, corrispondere, coincidere e gareggiare insieme, ma quella volontà a volte maniacale di tassonomizzare, quantificare, esplicitare, inglesizzare e imbrigliare in codici e griglie tutto quanto concerne la didattica, persino le ore. Ma anche scuola dell’efficienza e non dell’efficacia, scuola progettificio, scuola immagine e marketing, scuola delle responsabilità amministrative, scuola-documento, scuola delle skills, scuola dello psicologismo patologizzante, insomma, scuola che assomiglia sempre più ad un incubo kafkiano.

Oggi la scuola sembra sempre più assomigliare a un grande ufficio amministrativo che al luogo in cui si incontrano tra loro generazioni e in cui gli studenti incontrano un insegnante che porta con sé e testimonia quella che dovrebbe essere la sua passione.

Eppure i veri miracoli ancora accadono dentro l’aula e accadono proprio quando si chiude la porta e si comincia a fare lezione.

Quando un docente racconta e gli alunni riescono a entrare in quel racconto, quando un alunno si ‘confronta’ col docente e con i suoi compagni, quando si imbastiscono opinioni mediante un dibattito basato sull’ascolto, sulla parola e sulla mediazione dell’insegnante e non nella forma autistica e autoreferenziale del web in cui si vomitano sentenze tout court, quando a scuola un alunno scopre, attraverso la parola del docente, il caleidoscopio multiforme ma ordinato dell’oltretomba dantesco, o la poesia che emana Amore e Psiche di Canova, o la semplicità della legge gravitazionale di Newton, o la magia della genetica, o il mistero dell’universo finito ma dell’espansione infinita; quando un alunno scopre le lettere e i numeri,  impara a leggere da solo e a contare, quando entra nelle pieghe più nascoste e insidiose di un teorema o del pensiero di Kant; ecco, quando accade tutto questo, accade un miracolo e la scuola diventa una cura e un antidoto alla chiusura.

Un miracolo che si dispiega senza spettacolarizzazioni, senza foto, senza marketing e senza il bisogno di griglie e codici che quantifichino e imburocratizzino la lezione, ma solo attraverso due elementi:

  1.  Una profonda conoscenza di ciò di cui si parla
  2. Amore verso ciò di cui si parla.

Questo miracolo tende a far affiorare il desiderio di sapere e la voglia di confrontarsi con i propri compagni, coi docenti e, spesso, anche con i genitori, e non la voglia di chiudersi solo ed esclusivamente nell’autismo del web.

La scuola però purtroppo oggi bada sempre meno a questo aspetto e – in nome di un’innovazione che esecra la lezione classica, la spiegazione, il contenuto e soprattutto la figura del docente come volano di una testimonianza di desiderio – talvolta uccide anche gli insegnanti migliori e spegne anche i fuochi più accesi.

Questo per me però non significa che la scuola del nuovo millennio debba chiudersi alle novità digitali, sarebbe un atteggiamento antistorico e sterilmente nostalgico, tuttavia penso anche che questo mondo nuovo, dentro la scuola, debba essere l’accessorio, lo strumento, il mezzo per meglio amplificare la parola, non deve essere il ‘fine’ della lezione o sostituire la ‘parola’.  

Un giorno, una dirigente che teneva un corso di formazione ai docenti sulla didattica ‘innovativa’, disse che, essendoci nel cellulare già tutto, la voce del docente doveva ‘eclissarsi’ in nome di una didattica del ‘fare’ che permettesse ai ragazzi di risolvere problemi direttamente e senza passare attraverso la parola del docente che spiega, perché per i ragazzi di oggi, il docente che spiega, non è altro che una specie di mummia che fa annoiare e addormentare.

Se è vero che oggi non si può più pensare alla scuola come il luogo dove si trova depositato un sapere che viene travasato dal docente nella testa vuota di un alunno, proprio perché quel sapere oggi circola e sta già tutto dentro al cellulare, è anche vero però che nessun dispositivo potrà mai avere più effetto trasformativo della parola di un docente che conosce la sua disciplina, che non smette mai di studiare e che ama quel sapere, facendotelo toccare e sentire con il suo amore.

Senza quel passaggio, come si può pensare che i nostri ragazzi si orientino nell’oceano del web, che comprendano una pagina di wikipedia o di studenti.it, che sappiano destreggiarsi tra un sito attendibile e uno non attendibile, e che non incappino nelle teorie revisioniste o addirittura negazioniste?

La scuola può diventare un antidoto al mondo solipsistico delle nuove ‘melancolie’ e alla rigidità del pensiero, se sa far ‘incontrare’ persone e sa far incontrare ‘desideri’.

Io vorrei una scuola (soprattutto quelle di periferia, del Nord come del Sud dove, oltre agli spersonalizzanti centri commerciali, non ci sono spazi e punti di aggregazione) dove il docente possa realizzare ore di lezione con i propri alunni, ma anche con altri alunni dell’istituto in base alle sue discipline. Immagino una scuola con docenti che possano realizzare ore di lezione con i genitori per far conoscere Dante o il pensiero di Einstein,  immagino una scuola in cui l’incontro reale  tra docenti e allievi, adulti e bambini, possa essere il cuore acceso e pulsante di tutto questo grande ‘dispositivo’, tanto vituperato ma così essenziale per la vita di tutti noi.

Credits illustrazione: Agnese Innocente da “Scilla e il telefonino” Librì Progetti Educativi, collana Collilunghi.

Perché dobbiamo leggere “Il treno dei bambini” di Viola Ardone in classe

in Letture in classe by
L’analisi di Cinzia Sorvillo, docente, su “Il treno dei bambini”: una storia di separazione e di accoglienza che racconta l’Italia del dopoguerra.

L’amore ha tante facce, non solo quella che pensate voi, – interviene Maddalena. – Per esempio, stare qua sopra, in mezzo a tante pesti scatenate non è amore? E le mamme vostre che vi hanno fatto salire sul treno per andare lontano, a Bologna, a Rimini, a Modena… non è amore pure questo?Perché? Chi ti manda via ti vuole bene. Amerì a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene. Io questa cosa non la capisco, ma non parlo più. (Il treno dei bambini, p. 56)

Il treno dei bambini è un romanzo che ti prende nella pancia, non solo perché racconta una vicenda che ha il sapore della verità storica, ma perché con le parole riesce a farti affondare in quel coacervo così polimorfico e spesso contraddittorio che è l’amore. Solo i poeti possono custodire il mistero dell’amore, diceva Novalis, ed è vero. Solo agli artisti è concesso il dono di parlare d’amore, di suggerire l’amore, di sussurrarlo e di farcelo sentire nelle ossa, anche quando non parla del ‘nostro’ amore.
E Viola Ardone in questa storia, come solo i poeti sanno fare, ci parla d’amore, di un amore che ha tante facce, dai risvolti talvolta anche brutali, ma che sono, tutte quante, mosse da un unico imperativo, quello che a Napoli traduciamo, da sempre, non con la formula del ti amo, ma con il te voglio bbene. Quando vuoi bene, desideri ‘il bene’ dell’altro, desideri che l’altro possa stare bene, avere le sue opportunità, che possa conoscere il suo desiderio; quando vuoi bene non pensi al tuo di bene, vuoi bene e basta, anche se ciò comporta una grande sofferenza, una radicale mancanza.

Siamo nella Napoli del secondo dopoguerra e Amerigo Speranza è l’io narrante di una storia straordinaria, dura, che racconta la vicenda poco conosciuta di migliaia di bambini meridionali che, nel secondo dopoguerra, grazie al Partito Comunista, vennero strappati alla miseria e affidati a famiglie del Nord e del Centro. Amerigo è povero, vive a Napoli con la madre Antonietta, è figlio unico senza un padre, forse sparito in America. La madre decide di offrirgli l’opportunità di una vita migliore, per lui desidera scuola, cibo, salute. Il bambino parte per il Nord spaventato dalle dicerie sulle cattiverie e sulla crudeltà dei comunisti; sale sul treno per recarsi in un altrove sconosciuto dove troverà, gli hanno garantito, una famiglia affettuosa e una casa accogliente. Siamo in una Napoli in cui le scarpe non ti supportano nel tuo cammino ma o ti vanno strette o non le hai proprio e Antonietta, una mamma che parla poco, perché le parole non sono arte sua, sceglie quella radicale formula del ‘voler bene’ a suo figlio, anche se ciò, in lei e in Amerigo, comporterà un taglio totale, un ontologico spezzarsi a metà.

Antonietta è una madre che, insieme ad altre madri, inserisce il suo personalissimo amore per suo figlio in un discorso più ampio, in uno spazio di solidarietà e di rete che in Italia è veramente esistito e che ha visto la partecipazione di tantissime donne e uomini che sapevano agire. Un discorso che affonda le sue radici negli ideali del Partito Comunista, quello che aveva appena subito gli orrori e la violenza truce e cieca della guerra e che pertanto sapeva che gli ideali sono tali solo se capaci di tradursi in azioni vere e concrete. Un partito, insomma, che conosceva la differenza tra solidarietà e carità, che conosceva il senso più autentico dell’ospitalità.

Antonietta non è comunista, non conosce l’ideale partitico, però si affida ad altre donne e lascia andare, non concepisce suo figlio come una proprietà, ma lo lascia alle mani dell’Altro affinché quel figlio possa ricevere la ‘cura’ della vita, possa avere la possibilità di conoscere le sue inclinazioni, possa, in altre parole, avere le ‘sue’ di scarpe, scarpe che possano accompagnarlo nel suo personalissimo e unico percorso di crescita. Antonietta sa che al di là della Natura, al di là del sesso e della stirpe, una madre è tale se sa rispondere al ‘grido’ del figlio, al suo bisogno di scarpe, e Antonietta è una madre che dona il suo amore in nome di un’ospitalità senza diritto di proprietà. È un amore coraggioso quello di Antonietta perché Amerigo è un bambino che, nonostante tutta la povertà, amava la cura particolare della propria madre, quella cura fatta di mani che sanno riscaldare dal freddo della notte.

Io penso a mia mamma Antonietta. La sera nel letto le azzeccavo i piedi freddi sulla coscia. E subito arrivava l’allucco: <Che, mi hai pigliato per il braciere tuo? Leva subito questi pezzi di baccalà!> Però poi mi acchiappava i piedi e me li scaldava con le mani, dito per dito. E mi addormentavo, con le dita dei piedi miei in mezzo alle dita delle mani sue. (Il treno dei bambini., p. 51)

Come il professor Massimo Recalcati scrive nel suo libro Le mani della madre, “le mani sono il primo volto della madre”. Le mani sono il volto capace di “alleviare l’angoscia, di sottrarre la vita all’abbandono assoluto in cui è gettata”. La madre è, attraverso le mani, l’Altro che non lascia che la vita del figlio cada nel vuoto, è il nome del primo “soccorritore”. Solo attraverso il volto della madre, il bambino può incontrare il suo volto”. (Le mani della madre, pp. 183-184)

E Amerigo amava proprio quelle mani lì e senza quelle mani sentirà dentro di sé quella tristezza nella pancia che ha il sapore dell’abbandono, anche se il suo treno lo porterà in altre mani, in altri abbracci, in altri sorrisi, come quello di Derna, di Rosa, o nell’abbraccio di un uomo come Alcide che saprà essere per lui proprio come un padre.

Viola Ardone in questo romanzo ci avvolge totalmente. Quando ascoltiamo la voce di Amerigo non possiamo non sentire tutte le contraddizioni di questa forma così radicale di amore, non possiamo non sentire tutto il ventaglio di sentimenti che si squadernano nell’animo del protagonista, non possiamo non sentire anche noi la tristezza nella pancia che come figli, in un modo o nell’altro, abbiamo sentito nelle nostre vite. Un amore pieno di malintesi, un amore che però saprà ricomporsi e che consentirà comunque ad Amerigo di trovare le ‘sue’ scarpe e di scoprire il suo talento.

La bottega profuma di legno e colla. Ci sono gli strumenti, alcuni
interi e altri spezzettati, che aspettano di essere costruiti. – Che cosadevo fare? – chiedo io. – Siediti e guarda, – risponde, e inizia a lavorare. Io ascolto, osservo e il tempo passa veloce, non come a scuola. […] Appena appoggio il corista sul pianoforte sento un brivido che dalle dita passa nel braccio e sale fino al collo, come una volta che volevo svitare la lampadina sul comodino di mia mamma e presi la scossa. […] Ma questa è una scossa bella, di felicità. […] Il violino ci sta? – chiedo io, perché Carolina, la mia amica che sta al conservatorio, suona proprio quello. Il violino è complicato, – dice lui. – Siediti qua, – mi fa sistemare su uno sgabello davanti al pianoforte, mi fa premere i tasti ed escono le sette note che conosco io. Provo di nuovo ancora e ancora una volta: comincio a mischiare le note, proprio, come i numeri, e i suoni diventano infiniti. Mi immagino un maestro di musica, come quelli che ho visto dentro al teatro quando io e Carolina ci siamo intrufolati durante le prove. (Il treno dei bambini, p. 98-99)

Viola Ardone in questo libro non giudica, non sentenzia ma ha avuto la grande maestria di entrare nei panni di un bambino e di vedere il mondo attraverso quegli occhi, occhi che osservano, si innamorano, piangono, odiano, ma anche occhi che sanno perdonare, sanno rialzarsi e rinascere. Un libro che noi insegnanti dovremmo far leggere a scuola, a partire dalla scuola media per diversi motivi:

  • Perché è una storia che ci consente di parlare di Storia e di capirla la Storia senza entrare nel nozionismo.
  • Perché ci consente di capire e di far capire ai nostri alunni quanto siano importanti gli incontri, l’educazione, la formazione (quella che Amerigo non poteva avere a Napoli ma che poi, proprio grazie a quel treno, gli è stata offerta) per scoprire i nostri talenti e la nostra vocazione più particolare
  • Perché è un libro che ci consente di conoscere una lingua costruita sulla sintassi e il lessico di Napoli, facendoci immergere totalmente in una città che, come recita una splendida canzone di Pino Daniele, è di mille culure e mille paure.
  • Perché le vite degli altri che conosciamo attraverso i grandi romanzi, anche quando sono apparentemente lontane da noi, in realtà hanno il potere di parlarci e sanno raccontarci anche un po’ di noi stessi e tale è la magia che si dischiude ne Il treno dei bambini.
  • Ultimo ma non ultimo, perché ci consente di comprendere forse un pochino in più anche i viaggi che oggi quegli altri ‘meridionali’, quelli del Sud del mondo sono costretti a fare per provare ad avere una possibilità e a capire, forse, anche il dolore di quelle madri che si separano dai loro ragazzi con la speranza che possano incontrare anche loro ‘un treno’ che non li porti verso la morte ma verso la vita.

Per approfondire l’argomento sui “treni della felicità” vale la pena cercare e portare in classe anche il recentissimo albo illustrato Tre in tutto di Davide Calì e Isabella Labate, Orecchio Acerbo. Di questo albo abbiamo parlato nell’articolo “La paura nelle storie per l’infanzia: brividi che aiutano a crescere”.

Da vedere inoltre il docufilm Pasta nera, di Alessandro Piva. Anche RaiScuola ha dei materiali video: I treni della felicità, di Michela Guberti, con Bruno Maida.

Credits immagine: illustrazione tratta da “Tre in tutto” di Davide Calì e Isabella Labate, Orecchio Acerbo


L’incontro con un libro non nasce dalle frasi a effetto e non nasce dagli slogan

in Letture in classe by
Cinzia Sorvillo, docente a Orta di Atella (CE) ci parla del ruolo del docente nel facilitare l’incontro con un libro (con un ricordo d’infanzia)

Quando si parla di libri e ragazzi, o più genericamente di lettura e scuola, ecco che si sollevano sempre accorati appelli che ci richiamano all’importanza di quell’atto intimo, lento e dilatato che chiamiamo lettura. Basta fare un giro sul web o frequentare un pochino la scuola, che ci si trova sommersi di iniziative e campagne che promuovono la lettura con tanto di slogan a effetto. Con tutta questa promozione, dovremmo immaginare folte platee di studenti lettori, circoli di giovani amanti della lettura e tante persone appassionate a quell’antico e misterioso oggetto che sfalda muri e rompe argini.

Eppure gli italiani leggono poco! Basta guardare qualche statistica e i risultati che emergono appaiono agghiaccianti. Anche l’articolo apparso tempo fa nel Corriere, riporta questo titolo assai poco confortante (almeno per noi docenti): Uno studente su tre esce dalle medie senza sapere leggere, scrivere e far di conto. E allora? Perché i nostri allievi non leggono nonostante il proliferare di iniziative promosse nelle scuole?

Su questo tema hanno parlato e si sono interrogate tante persone ben più esperte di me, semplice insegnante di una scuola media della periferia campana (L’Istat ha messo in rilievo come in Campania, Calabria e Sicilia, più della metà degli studenti siano ad un livello inferiore a quello richiesto dalle Indicazioni Nazionali). Immaginiamo una scuola media della periferia del Sud Italia, luoghi in cui sovente i libri non sono proprio il pane quotidiano che masticano gli studenti, in cui librerie non esistono, biblioteche comunali nemmeno, e magari non c’è neanche una biblioteca scolastica. Anche io sono cresciuta in una periferia di un paese del Sud e ricordo vividamente quella sensazione di assenza di libri che mi circondava: nel mio paese non c’erano né librerie né biblioteche. Nonostante tutto, io cominciai a leggere. Come? Grazie a un incontro.

Scuola media. Un giorno un uomo abbastanza anziano venne a scuola con diversi libri. Nell’androne c’era una cattedra su cui erano adagiati un po’ alla rinfusa dei testi e a noi studenti fu data la possibilità di prenderli in prestito. La prof. di italiano ci mandò fuori per dare uno sguardo. Arrivò il mio turno. Uscii dalla classe e guardai tutti quei libri sparpagliati su questa cattedra. Alcuni erano vecchi, altri nuovi, alcuni erano pieni di immagini, altri sembravano quasi dei manuali. Poi guardai il signore, un uomo in carne ed ossa seduto con un libro in mano, con occhi sprofondati in quell’oggetto. Un’immagine che ancora ricordo immortalata nella mia memoria quasi come una fotografia.

Era incantevole quello sprofondamento, quella presenza che era lì, eppure era altrove.

Lui non prestò attenzione alla mia timida presenza, immerso com’era in quelle pagine. Alla fine decisi di chiedergli cosa stesse leggendo! Io non sapevo cosa scegliere, così pronunciai grosso modo queste parole: –Mi può consigliare un libro che mi faccia stare come stava lei fino a cinque minuti fa? – Lui mi osservò e lesse una pagina di un libro per me. Storie di ragazzi che per un motivo o per un altro, diventavano delinquenti e il carcere minorile (così si intitolava il libro) era l’epilogo a cui erano costretti. Tuttavia la mancanza di libertà che si creava in quel luogo generava una nuova, più vera e autentica libertà. Si chiamava: speranza. Speranza di cambiare, speranza di migliorare, speranza di rinascere.

Quella fu la mia iniziazione simbolica alla lettura. Quel libro non era un capolavoro della letteratura, però la parola viva di quell’uomo fece nascere in me una curiosità che si concretizzò nella lettura di quel libro, che aprì le porte a tutte le letture successive. Tutta questa mia personale storia per dire cosa? L’incontro con un libro non nasce dalle frasi a effetto e non nasce dagli slogan. L’incontro con un libro nasce attraverso l’Altro, una testimonianza, cioè attraverso l’incontro con un lettore in carne ed ossa che, magari, legga con te e, perché no, per te. A me bastò un incontro di pochi minuti, forse i nostri ragazzi hanno bisogno di un insegnante che crei spesso nell’aula quell’incontro, leggendo con e per loro. Quel giorno accadde per me un incontro vero, con un libro vero e una persona vera che leggeva. Nessuna pubblicità, nessuno slogan… Solo una persona che leggeva.

Credits: Matteo Perdon, Italia Non solo spettatore Acquarello, pastelli, digitale (BCBF 2019 “Il bambino spettatore”)

Gli adolescenti hanno paura, anche di vivere, e la comunità educante dove sta?

in Scuola by
paura
Una riflessione della professoressa Cinzia Sorvillo su paure e disagi degli adolescenti, tra fatti di cronaca, serie tv e pericolose sfide online

In questi giorni di fine anno scolastico, quando i docenti sono affastellati da scartoffie che parlano una lingua asettica e lontana dal reale, quando gli adempimenti finali, le medie e le virgole sembrano essere le uniche parole che echeggiano nelle sale professori, accade che in Olanda una ragazza di 17 anni abbia scelto di non vivere più. Noa e il suo lasciarsi andare ad Ade, dopo il rifiuto dello Stato a concederle l’eutanasia, dovrebbe generare in noi adulti (soprattutto in quelli che come me hanno a che fare ogni giorno con gli adolescenti) un turbamento immenso che però non dovrebbe arenarsi nello sconforto, ma tradursi in seria volontà di azione.

In un articolo uscito su Repubblica qualche giorno fa, quando ancora in Italia si parlava di eutanasia, il professor M. Recalcati ha posto una domanda a se stesso e a tutti noi: “Non è forse compito degli adulti contrastare in ogni modo – anche attraverso le Leggi – la spinta alla morte, sia essa quella della violenza sia essa quella dell’autodistruzione? Non è forse loro compito quello di testimoniare l’esistenza dello splendore del mondo nel pieno dell’atrocità del mondo?”.

Ovviamente a una domanda del genere tutti noi dovremmo rispondere ‘sì’, che noi adulti abbiamo il dovere di mostrare che anche dall’atrocità della vita può nascere quella ‘ginestra’ capace di portare bellezza dove la lava sterminatrice porta solo morte e deserto (Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi/I danni altrui commiserando, al cielo/Di dolcissimo odor mandi un profumo,/ Che il deserto consola. Leopardi, La ginestra)

E allora penso che qualche anno fa una serie tv andata in onda su Netflix, 13 Reasons Why, portava sullo schermo le tredici ragioni per cui Hannah Baker, un’adolescente americana, sceglieva di affidare alla morte, la fine del suo dolore. Quell’anno insegnavo in una terza media strepitosa, e molti ragazzi cominciarono a chiedermi se avessi visto la serie. ‘Prof l’ultima puntata è da brivido’, mi dicevano. Non conoscevo la serie e non sapevo che fosse la traduzione filmica di un libro di Jay Ahsher, Tredici, edito da Mondadori.

Poi accadde che durante le stesse settimane in cui giovani e meno giovani si lasciavano irretire da questa serie tv, sempre questi miei alunni mi chiesero cosa ne pensassi del fenomeno (montato ad arte ma con ripercussioni nella quotidianità) della Blue Whale. E una mia alunna mi disse anche: ‘Prof ho paura’.

Gli adolescenti hanno paura: paura di sbagliare, paura di essere giudicati, paura dei compagni, paura di non farcela… paura di vivere!

La protagonista di Tredici sceglieva di morire perché annientata dalla violenza della vita (anche una violenza fisica), Noa è stata ammazzata dalla violenza subita e dalla depressione, qualche settimana fa una ragazza malese di 17 anni ha affidato a un sondaggio su Instagram la sua scelta di morire, e la violenza del pollice verso, come quello delle arene romane, ha decretato la sua fine.

Anche la stessa Noa aveva postato su Instagram la sua scelta di lasciarsi andare alla morte, mentre la protagonista di Tredici, affidava a delle musicassette, tutte da ascoltare post mortem, le tredici ragioni che l’avevano portata a farla finita.

È assordante la nostra assenza in tutti questi casi. Noi adulti non ci siamo mai.

Le morti si annunciano in rete o si esibiscono quando tutto è finito e noi adulti assistiamo impotenti a questi spettacoli di autodistruzione. I genitori di Hannah amavano la figlia ma erano all’oscuro di tutto e niente hanno potuto, i genitori di Noa hanno assistito inermi alla fine della loro bellissima figlia, il loro amore non è bastato. Io sono madre e insegnante, ho vissuto anche io l’adolescenza e conosco anche il senso di molti dei disturbi o disagi che abitano le vite di molti adolescenti. Anche io in molti momenti ho pensato di non farcela, anzi di non desiderare più di farcela, eppure sono ancora qui, a desiderare ancora e a vivere ancora.

Se Hannah dedicava tredici ragioni alla sua scelta di morire, io vorrei trovare in quella storia, che secondo me va letta a scuola e con l’insegnante, tredici ragioni per scegliere di vivere, anche quando la vita diventa atroce e il deserto emotivo sembra chiudere ogni possibilità. Vorrei testimoniare a tutte le Hannah del mondo che la violenza è solo ‘una’ faccia dell’Altro, ci sono anche tanti Altri che conoscono l’amore e il rispetto.

Vorrei testimoniare a tutte le Noa del mondo che se 17 anni sono stati orribili, ci possono essere altri 17 anni bellissimi, ma se muori, sei morto, non esisti più, non potrai più conoscere, sapere, guardare, odorare, ridere, piangere e rinascere.

Vorrei dire a tutte le Hannah del mondo che morire non significa porre fine al dolore ma porre fine alla vita che è anche altro dal dolore e che nessuna cassetta ti consentirà di riscattare quella violenza che hai pensato di vendicare con le audiocassette.

Noa, vorrei dirti che esiste anche la possibilità del desiderio, che la battaglia che avevi cominciato per riformare il sistema sanitario olandese affinché non si muoia di dolore psichicio, poteva continuare anche grazie a te, vorrei dirti che potevi continuare a lottare e a militare per aiutare tutte le Noa del mondo.

Vorrei dire a tutte le ragazze come Hannan e come Noa che esiste anche l’amore, non solo lo strupro e che se muori non potrai mai conoscerlo.

Vorrei dire a tutti gli adolescenti che ognuno di noi può trovare almeno una ragione per vivere, perché solo se vivi puoi anche morire simbolicamente e rinascere realmente. Solo se vivi puoi attraversare la morte senza morire.


“Prof. perché dovremmo leggere?” Scuola, lettura e norma

in Letture in classe by
lettura sette minuti dopo la mezzanotte
La riflessione di Cinzia Sorvillo, docente di secondaria inferiore, sulla lettura. Classici o novità? E perché? L’esperienza in classe con “Sette minuti dopo la mezzanotte” di Patrick Ness e Siobhan Dowd

Il titolo ‘provocatorio’ che ho dato a queste riflessioni, l’ho pensato come ipotetica domanda che potrebbero pormi degli alunni.

Prof, perché dovremmo leggere? Che significa che leggere è importante, se poi ci mette un libro in mano, ce lo assegna per le vacanze e ci chiede una relazione? Un’altra domanda, che peraltro spesso i miei alunni tredicenni mi hanno rivolto, è stata anche questa: Cosa leggere?

Ci lamentiamo del fatto che gli alunni non sappiano leggere, ma poi quanti docenti non leggono mai in classe qualcosa che vada al di là del brano di antologia o del paratesto dei libri di storia della letteratura?

Quanti docenti, inoltre, sono rimasti fermi alle loro vecchie letture scolastiche ‘classiche’ e non si sono mai cimentati nella lettura di un testo per ragazzi? Quanti docenti, ancora, estromettono testi più vicini nel tempo  e nello spazio solo perché ritenuti indegni in quanto ‘troppo nuovi’ (autori che secondo alcuni puristi, non essendo ancora passati al vaglio del tempo, non possono essere considerati ‘letteratura’) e i loro autori troppo ‘impegnati’ o troppo di ‘parte’?

Come possiamo pretendere di avere degli alunni lettori se non cominciamo direttamente noi a incontrare i libri e ad usare il libro come veicolo di apertura e non di chiusura? 

Umberto Eco diceva che la lettura è un’operazione faticosa, innaturale e che ci vuole tanto esercizio e pratica.

Ecco, cominciamo ad andare in libreria, entriamo nella sezione per adolescenti, compriamo un libro e leggiamolo. Poi passiamo ad un altro libro, più profondo e ‘difficile’, e di volta in volta alzeremo un po’ l’asticella, fino ad arrivare a proporre le letture del ‘canone’.

Qualcuno potrebbe dire: E gli autori essenziali quando li facciamo? -.

Per molti docenti, il corpus di testi che la scuola ha l’obbligo di proporre, sono solo quelli del cosiddetto canone letterario. In altre parole, l’apertura alla letteratura contemporanea sarebbe una sorta di attività inutile, sterile o addirittura pericolosa.

Imbrigliati in un catalogo letterario fermo, si preferisce dedicare due o tre ore di lezione a Giambattista Marino, piuttosto che provare a leggere qualche pagina di un autore contemporaneo che per i  ragazzi potrebbe essere più stimolante perché sentito come più vicino e perché ‘parlante’ una lingua che non si avverte come ‘straniera’.

Il fenomeno Wattpad, che da anni produce milioni di giovanissimi lettori e ‘scrittori’, ci offre la misura di quanto innanzitutto i ragazzi sentano un bisogno intrinseco di leggere e raccontare storie, ma anche della deriva che il processo della lettura può assumere, se gli adulti non sono capaci di dialogare con le nuove generazioni.

E la scuola cosa deve fare? Arroccarsi in una norma chiusa, graniticamente sistemata nel passato, estromettendo l’altro e il nuovo, o porsi come mediatrice tra tradizione e innovazione?

Io insegno alle medie, pertanto la mia priorità è insegnare ai miei studenti a leggere e ad incontrare i libri e, inoltre, sono abbastanza libera nella scelta degli autori, visto che non ho una storia della letteratura da portare a termine. 

Provo un amore smodato per alcuni ‘autori’ classici, come Dante, Boccaccio, Goldoni, Manzoni, Montale, Pirandello, Flaubert, Orwell, e la lettura ‘diretta’ di questi scrittori non manca mai nelle mie lezioni, tuttavia cerco di aprirmi al nuovo con grande fiducia, nella convinzione che ci siano tantissimi libri che possano fungere da volano per aprire le menti dei miei allievi e che possano aiutarmi affinché il libro diventi un incontro in grado non di alzare i muri, ma di romperli.

Inoltre non credo sia necessario leggere in classe un intero libro.

A volte basta portare un romanzo in classe e, semplicemente, cominciare a leggere.

Legge il prof e la sua voce si propaga, la sua espressione interpreta, le sue pause attirano, il suo tono si alza e si abbassa, le sue parole diventano veloci e lente, appena sussurrate o fatte straripare.

I ragazzi cominceranno a incontrare una storia in cui troveranno qualcosa di loro e leggeranno quel libro.

Qualche alunno dirà: Prof come si intitola il libro? Domani chiedo a mamma di comprarlo – Mentre qualcun altro farà: – Prof, me lo presta?

Spesso i primi a perdere il desiderio siamo noi docenti, ci arrendiamo alle carte, alla fuffa burocratica, alla regola o alla ‘norma’ e ci demotiviamo, pensando che tutto ormai si stia perdendo nel vuoto dei social e dell’assenza di educazione, di rispetto e di desiderio.

E invece no.

Spesso mi sono ritrovata in classi con ragazzi tredicenni che non avevano mai letto un libro e che in casa non hanno libri.

Cosa deve fare un docente con questi ragazzi? Deve partire dalla vita di Dante o deve cominciare con la lettura di qualcosa di più prossimo al suo mondo?

Con i miei alunni leggo tanto.

I libri che sono rimasti più impressi nei loro ricordi e che hanno dato più frutti (anche in termini di competenze, giusto per usare anche le etichette) e che poi hanno spesso fatto da apripista anche alla lettura di testi letterari ‘alti’, sono stati quelli che abbiamo cominciato a leggere in classe e che non fanno parte del cosiddetto ‘canone’.

Libri letti prima da me, vissuti da me, che hanno infiammato me, nonostante non fossero ‘altissima’ letteratura, e che poi ho ‘testimoniato’ con la mia parola a loro.

Quest’anno ho portato in una mia seconda il romanzo Sette minuti dopo la mezzanotte di P. Ness. Lo avevo letto io prima a casa ed ero stata catturata dalla forza del desiderio del protagonista, Conor, aiutato a sopravvivere al mondo, alla separazione dei genitori e alla malattia della madre, dal suo inconscio (almeno io l’ho letto così) che si manifestava attraverso dei sogni a occhi aperti, di notte, sette minuti dopo la mezzanotte, quando accadeva che si ergeva, di fronte a lui, un mostro!

A prendere le sembianze del mostro era un antico tasso, l’albero che si trovava di fronte alla casa del ragazzino. Era un mostro po’ particolare perché non impauriva Conor, ma gli raccontava delle storie! Queste erano storie che raccontavano di una realtà che è molto più complessa di quella che appare a un primo sguardo, lo sguardo censore della ‘Legge’ che giudica in maniera manichea cosa sia il Bene e cosa il Male.

E quella Legge, purtroppo, il giovane protagonista la covava dentro di sé, un legge inflessibile che non gli consentiva di raccontare a se stesso la ‘sua’ di storia. 

Conor aveva paura di quel mostro interiore che lo avrebbe giudicato.

Ed ecco che il tasso (la fantasia, il sogno, l’inconscio) gli andò in soccorso per far sì che, attraverso le quelle storie un po’ strane che raccontava (del resto il sogno è sempre bizzarro), Conor riuscisse finalmente a dirsi la verità, quella verità di cui tanto aveva paura e che ogni notte prendeva la forma dell’incubo, questa volta di un incubo vero che lo faceva svegliare spesso di soprassalto, madido di sudore e paralizzato dalla paura.

Quale fosse questa scomoda verità di Conor, non voglio spoileralo qui, però io in questo splendido libro, ho fatto esperienza della grande forza del sogno e della fantasia a darci una possibilità di rinascita. È un libro che racconta una storia e che parla di storie, un libro che ci mostra quanto le storie abbiano la capacità di parlarci, di leggerci…

Quando lessi i primi capitoli in classe, mi trovai di fronte degli occhi ipnotizzati, incantati.

Non era forse il mio trasporto per la verità di quel libro che mi aveva letto, commosso e acceso, a propagarsi in quella classe e ad accendere i loro sguardi? Eppure l’autore non compare nei libri scolastici e non fa parte del ‘canone’.

Fatto sta che diversi ragazzi hanno acquistato il libro e lo hanno letto, altri se lo sono fatti prestare!

[…] Basta così Conor O’Malley, disse il mostro, con dolcezza. Questo è il motivo per cui mi sono messo a camminare, per dirti questo, di modo che tu possa guarire. Devi ascoltare.

Conor deglutì ancora. – Ti ascolto.

La vita non si scrive con le parole, disse il mostro. Si scrive con le azioni. Quello che si pensa non conta. La sola cosa importante è ciò che si fa.

Ci fu un lungo silenzio, e Conor riprese fiato.

– E allora cosa devo fare? – chiese infine.

Devi fare quello che hai appena fatto, disse il mostro. Dire la verità.

– Tutto qui?

Credi sia facile? Il mostro alzò due enormi sopracciglia. Tu eri pronto a morire piuttosto che dirla.

Conor si guardò le mani, disserrandole infine.

– Perché quello che pensavo era terribilmente sbagliato.

Non era sbagliato, disse il mostro. Era solo un pensiero, uno su un milione. Non era un’azione. […]

Chiudo con questo passo tratto da Massimo Recalcati, in L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, 2014


“La Scuola apre mondi. La sua funzione resta quella di aprire mondi. Non è solo il luogo istituzionale dove si ricicla il sapere dello Stesso, ma è anche potere dell’incontro che trasporta, muove, anima, risveglia il desiderio”.

Testo inviato da: Cinzia Sorvillo, Scuola Secondaria Primo Grado Massimo Stanzione di Orta di Atella (CE)

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