Paolo Fasce

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Dirigente scolastico del "Nautico San Giorgio" di Genova e Camogli, docente di diversi corsi e laboratori all'Università di Genova, in particolare nei Corsi di Specializzazione sul Sostegno e in Master di formazione dei docenti (autismo e intercultura), pensa di poter guardare la realtà come "altro da sé" grazie al fatto di avere giocato a Dungeons & Dragons da giovane. Ludologo, orgoglioso di essere Gran Maestro di Othello e Campione Italiano di Axis & Allies, è giornalista pubblicista e si occupa di scuola anche militando in associazioni quali il Coordinamento Genitori Democratici e Condorcet - ripensare la scuola.

Lettera ad una professoressa. 100 anni con Don Milani

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La lettura del testo di Don Milani e della Scuola di Barbiana riesce ancora oggi – dopo 100 anni – a proporre spunti di riflessione sulla scuola e gli insegnanti.

Si celebrano quest’anno i 100 della nascita di Lorenzo Milani, mancato nel giugno del 1967 e protagonista negli anni sessanta per il suo contributo alla determinazione di quella che oggi potremmo chiamare “la vision di un’epoca”, gli anni sessanta e, per fertilità conseguente, gli anni settanta.

La sua opera più famosa ha una firma collettiva “Scuola di Barbiana” e viene scritta cinque anni dopo l’istituzione della “scuola media unica” che, dal 1962 ha sostituito l’avviamento professionale al quale erano destinati i figli delle classi popolari, e che produsse una quantità di bocciature abnormi in una scuola ancora culturalmente gentiliana e operativamente selettiva.

Molte le iniziative che celebrano questo centenario

Personalmente partecipo in veste di tenore a quelle proposte dal “Coro Daneo” di Genova che intervalla letture dalla “Lettera” e da “L’obbedienza non è più una virtù” a canzoni culturalmente affini (si trovano filmati in rete, nel repertorio, a titolo di esempio: Prendi la chitarra e vai, È dall’amore che nasce l’uomo, Power to the people, Here’s to you, Il disertore, C’era un ragazzo, Ti ricordi Joe?).

Viene tuttavia da domandarsi, approfittando della ricorrenza, quali siano i limiti della scuola di oggi al fine di attualizzare l’azione politica di Don Milani, anche superandone gli errori, spesso figli di un’epoca, probabilmente facendo di conseguenza i nostri. “Aiutami a fare da solo!” è un motto montessoriano che mi sembra giusto evocare a questo punto per attinenza.

La scuola è molto cambiata e la legislazione scolastica è assai avanzata e inclusiva

La lettura dello Statuto delle Studentesse e degli Studenti, come il D.P.R. 122/2009 e il D.Lgs. 62/2017 che trattano di valutazione e, soprattutto, le indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, le linee guida degli istituti professionali, quelle degli istituti tecnici e le indicazioni nazionali per i licei delineano, sulla carta, un contesto ricco, avanzato, personalizzato e inclusivo.

Ma nel mondo reale le cose stanno veramente in questo modo? La legislazione è attuata? Le linee guida trovano corrispondenza nelle prassi? Purtroppo occorre ammettere di no.

Faccio un piccolo esempio tratto dal mio lavoro

Ricevo una studentessa in lacrime. Confessa di avere saltato una verifica al penultimo giorno di scuola, avendo fino ad allora maturato valutazioni dignitose e sufficienti. È entrata in ritardo all’ultimo giorno proprio per saltare quella materia.

L’insegnante la raggiunge, la tira fuori dall’aula e la interroga fuori orario. Le assegna una grave insufficienza che rischia di compromettere la promozione. La studentessa piange in corridoio ed è intercettata da un insegnante che la porta da me. Lei non vuole farlo perché ha paura della vendetta dell’insegnante, ma si lascia convincere.

Grazie alla mediazione dell’insegnante che me l’ha portata, comunque vuota il sacco. Confessa, si scusa e piange perché è sempre stata promossa e quest’anno, per questa bravata rischia la sospensione del giudizio. Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento poco maturo da parte di una persona in formazione (che quindi ha diritto ai suoi errori).

Ma perché la studentessa ha saltato quella verifica?

Perché una studentessa che ha sette nel primo quadrimestre, si ritrova a “giocare in difesa” negli ultimi giorni di scuola?

Perché pensa che un’unica prova finale possa inficiare un intero anno scolastico?

La risposta è semplice: quell’insegnante basa la sua azione didattica entro la dinamica del potere ed è autocentrata. Strilla in classe, strilla in corridoio, strilla anche coi colleghi. Non è a disposizione dell’apprendimento, ma del proprio narciso.

Vuole che le si riconosca il fatto che nelle sue classi non vola una mosca, poco importano gli insegnamenti di Daniela Lucangeli sull’apprendimento emotivo, sulla significatività dell’esperienza didattica quando avviene in contesti che valorizzano la curiosità e non stigmatizzano l’errore.

Ciò a cui alcuni insegnanti abituano gli studenti e le studentesse è una mera rappresentazione dell’apprendimento entro l’insensatezza della didattica che ho battezzato “spiego, studi, interrogo, dimentichi” (SSID). Per tredici anni di scuola.

La professionalizzazione della classe docente

Ecco, credo quindi che la battaglia degli anni venti del ventunesimo secolo sia quella della professionalizzazione della classe docente che deve diventare strutturalmente esperta di psicologia dell’età evolutiva e di dinamiche di gruppo (nella mia vita di insegnante di sostegno ho osservato diverse volte che, quando un adolescente discute con un insegnante, non sempre si notano le differenze nell’atteggiamento e nelle argomentazioni), di pedagogia dell’inclusione, di tecniche didattiche cooperative, di docimologia della valutazione formativa e di legislazione scolastica.

È probabilmente inutile immaginare il ripristino delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario quando basterebbe istituire un supervisore della formazione per ciascun insegnante al fine di indirizzare ognuno, in maniera sartoriale fondato sul bisogno formativo del singolo, entro le risorse formative offerte dal territorio che tra ambiti scolastici, università e tessuto culturale cittadino (nella mia città, ad esempio, penso a Palazzo Ducale e alle tante associazioni che promuovono eventi e cultura dal basso) possono incarnare quanto già in vigore nell’attuale contratto collettivo nazionale quando, nel profilo professionale degli insegnanti, li si descrive in questo modo bellissimo: «Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica».

“Prof, quanto mi ha dato?”. Parliamo di valutazione.

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Ormai giunti alla fine della scuola è il momento di parlare di valutazione, alla quale forse si da troppa importanza

La frase inerente alla valutazione che dà il titolo a questo articolo è un frammento di conversazione che ho captato una mattina mentre andavo a lavorare. L’ho intercettata mentre attraversavo un gruppo di studenti e studentesse alla stazione, di età compatibile con quella di una scuola secondaria.

Immagino che fossero convenuti in quello spaziotempo per un’uscita didattica. Nel fugace transito, ho colto questo passaggio che ha dato la stura a fiumi di considerazioni sulla valutazione che hanno affollato la mia mente per giorni e che ora cerco di sistematizzare in questo intervento.

Vediamo (e ascoltiamo) quello che vogliamo vedere (e ascoltare)

La prima considerazione è autocritica: vediamo (e ascoltiamo) quello che vogliamo vedere (e ascoltare). Lo dico perché in rete ho intercettato una massima attribuita a José Ortega y Gasset che ci ammonisce:

Se insegni, insegna anche a dubitare di ciò che insegni.

E allora è bene che io stesso sappia che ormai note ragioni di origine neurocognitiva ci rendono consapevoli del fatto che ci soffermiamo su segnali che abbiamo la sensibilità di intercettare e chissà quanti altri ne ignoriamo di cui, probabilmente, dovremmo tenere conto.

Per questo è utile la discussione aperta che coinvolge la molteplicità delle vedute che portano alla nostra attenzione anche quello che non vediamo e che ci consenta di partire dai fatti, che non possono che essere accettati, quelli comodi e quelli scomodi, per costruire le teorie che li spiegano.

“Prof, quanto mi ha dato?”

Perché, mi sono domandato, la studentessa ha chiesto “quanto mi ha dato del tema?” e non altro? Quante volte abbiamo intercettato frasi del tipo: “Prof, ha visto che ho usato la concordanza a senso?” oppure “Le è piaciuta la metafora nelle conclusioni?” o, ancora: “Ha apprezzato l’ossimoro che ho escogitato?”.

Queste domande sarebbero sintomatiche di focalizzazione sul contenuto, sugli apprendimenti, sulle abilità e sulle competenze, cioè su quello che uno studente o una studentessa ha imparato, cercando gratificazioni dove è giusto che sia, e mostrerebbero attenzione e consapevolezza degli apprendimenti.

E invece no: “quanto mi ha dato?”. Peraltro neanche: “Prof, scommetto di avere preso sette!”? Sarebbe significativo di una qualche autovalutazione ai sensi della normativa vigente:

La valutazione … ha finalità formativa ed educativa e … promuove la autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze.

(Art. 1, comma 1 del D.Lgs. 62/2017)
Ma lo scopo del “gioco” non è imparare?

Quando insegnavo, mi permettevo di chiosare con questa risposta:

Io non ti do niente, sei tu che prendi quello che è tuo!

Perché c’è un altro elemento drammatico in quella domanda e cioè il fenomeno della questua. Questa nasce dall’evidente esigenza dello studente di conseguire risultati formali che gli/le consenta di essere promosso. Capite bene che lo scopo del gioco, qui, è prendere la sufficienza, non imparare qualcosa.

E per prendere la sufficienza è anche utile avere buoni rapporti coll’insegnante e quindi “chiedere”, nel senso di “richiedere”, quindi di “chiedere per ottenere”. Forse, meglio chiedere “per piacere”.

Beninteso non sempre è così, capita che quando ci sia una differenza sociale usata dall’insegnante per negare il valore delle culture familiari dei propri studenti, il “chiedere per ottenere” può anche divenire sgraziato e fonte di ulteriori irrigidimenti.

Spostare il focus

Sarebbe la stessa cosa se riuscissimo a focalizzarci sugli apprendimenti e non sui voti? Sappiamo per esperienza che tutte le volte che presentiamo la correzione di un compito, le studentesse e gli studenti corrono a vedere la valutazione. Il resto non conta.

Essendo costretto a dare voti, nella mia esperienza di insegnante, li fornivo agli/le studenti/esse prima della consegna. Quando consegnavo i compiti, quindi, il voto era già noto e l’attenzione poteva focalizzarsi sulle correzioni, ma non posso testimoniare di grandi successi.

Auto-valutazione?

Ebbene, se invece consegnassimo i compiti con le nostre correzioni e la griglia di valutazione chiedendo alle studentesse e agli studenti di autovalutarsi alla luce di quella griglia? In fin dei conti, una griglia di valutazione è qualcosa che affronta un altro elemento rilevante della valutazione ed è la questione del voto come forma di potere, ampiamente dibattuta dalla pedagogia recente, ad esempio nei lavori, o più semplicemente nei post sui social network, di Cristiano Corsini e di Antonio Vigilante.

Il voto è potere!

Il voto è potere e il potere inquina la relazione. Se devo guardarmi dall’insegnante che potrebbe colpirmi con un’insufficienza, per quale motivo dovrei aprirmi a lui come faccio dal medico quando vado per farmi curare? Invero capita che ci siano pazienti che mentono al medico perché non vogliono l’amara medicina… Cosa pensiamo di queste persone? Semplicemente che sono dei poveretti ingenui e che pagheranno con la propria pelle le conseguenze di questo atteggiamento infantile. Ma temo che noi, nel mondo della scuola, costruiamo le condizioni per l’infantilizzazione dei/delle discenti.

L’importanza dell’ambiente di apprendimento

In fondo se forniamo una griglia di valutazione e la commentiamo assieme, un po’ di potere lo perdiamo, ma probabilmente ne guadagna la relazione, ne guadagna la configurazione neuronale del nostro studente che è liberata dalle sostanze prodotte dall’amigdala quando questa ci paralizza urlando: “pericolo! Pericolo!”.

E quando siamo nel pericolo, ci insegnano le neuroscienze, non si impara nulla. Ci si irrigidisce nella paura o si scatena una reazione di fuga perché l’amigdala ci dice: c’è un leone dietro a quel banano, scappa!”. Possiamo imparare con un leone dietro al banano? Provate a studiare le tabelline in una gabbia di tigri.

Eppure è l’ambiente di apprendimento che, anche inconsapevolmente creiamo. A volte sorprendendoci della diffusione degli attacchi di panico, dei disturbi alimentari, della fragilità di alcuni alunni e, quando va male, della loro oppositività o aggressività. Sta a noi leggere queste cose nella classe e cambiare la cose.

Per saperne di più: avevamo già affrontato il tema della valutazione in questo articolo.

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Piccole deduzioni intorno alla neuroscienza

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Optare per una didattica dell’incoraggiamento e della solidarietà. Ce lo dice la neuroscienza!

Qualche lustro fa, quando frequentavo la Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS), nel corso di un insegnamento nell’ambito della neuroscienza, il docente ci spiegò che l’attenzione aveva una durata che, di norma, non si estende oltre i tre quarti d’ora.

Anche per questo motivo le lezioni universitarie hanno da tempo istituito il cosiddetto “quarto d’ora accademico” (svelato l’arcano!). Di tale informazione scientifica pare che la scuola non se ne sia fatta nulla, salvo qualche tanto luminoso quanto isolato esempio che occasionalmente si intercetta dalle cronache.

Solo pochi anni fa, frequentando la “Giornata Scientifica” del Polo M.T. Bozzo dell’Università di Genova, il prof. Francesco Benso, già docente di Psicologia Fisiologica, PsicoBiologia e Psicologia dell’Attenzione presso l’Università di Genova, discettava su un particolare tipo di attenzione, quella concentrata, informando l’uditorio del fatto che questa poteva essere sostenuta in media per cinquanta secondi.

Naturalmente portati per la distrazione

La conseguenza è piuttosto evidente: siamo strutturalmente distratti. Se la scuola prendesse atto di questo, interverrebbe in due modi:

  • il primo è quello metacognitivo, giacché la consapevolezza di questo fatto consente a ciascuno di strutturare strategie di rientro nel setting didattico senza colpevolizzazioni o autocommiserazioni, che più che essere inutili sono dannose in quanto minano il senso di autoefficacia.
  • Il secondo è di tipo didattico, nel senso che si favoriranno setting d’aula che consentono maggiore interazione, ad esempio quelli di tipo cooperativo, giacché questo è intrinsecamente motivante e consente di riprendere l’attenzione sul focus del gruppo con maggiore frequenza e naturalezza (anche col contributo dei compagni, ad esempio, nel cooperative learning una figura è “orientata al compito” e a questo riporta il gruppo).
Chiedere il controllo su qualcosa di incontrollabile: un esempio personale

Lo scrivente è un soggetto allergico e, in casi di esposizione ad allergeni primaverili, frequentemente capita di starnutire. La cosa produce enorme fastidio alla consorte che se ne lamenta in continuazione, pur non avendo alcun controllo sul fenomeno. In occasione di una gita domenicale, mi trovavo in auto con detta consorte (lei era alla guida) e mentre ascoltavo canzoni del gruppo preferito della figlia, cercavo di leggere i testi stampati nel cofanetto dell’album.

Ad un certo punto siamo entrati in galleria e le ho detto: “Amore, scusa, puoi uscire dalla galleria? Non riesco a leggere!”. Ci siamo fatti una risata. Sadicamente ho ripetuto il cliché altre volte fino a quando mia moglie mi ha apostrofato: “Non fai più ridere!”. A questo punto le ho fatto notare come la situazione fosse identica a quella degli starnuti.

Le chiedevo di fare qualcosa sulla quale non aveva alcun controllo e la sopportazione in merito a fatti del genere non poteva che evolvere secondo la seguente parabola: divertimento e riso, indifferenza, fastidio. Pur avendole dimostrato le mie ragioni con un’esperienza vissuta, la conseguenza non è stata ahimè affettuosa.

Conclusioni

Ho dedotto dall’episodio una considerazione di tipo didattico.

Mi pare infatti che sia evidente che la didattica razionale sia inefficace per motivi di ordine neuroscientifico. È il nostro cervello, il nostro hardware, ad essere così. L’insegnante ha sempre ragione per infinite buone ragioni, ma questo non basta ad educare, a convincere, a instradare le studentesse e gli studenti entro direzioni consone.

Per questo occorre la massima attenzione alla relazione, ai vissuti, alle emozioni, come ci ha insegnato Daniela Lucangeli. Possiamo insegnare razionalmente in ambito accademico avanzato, ma non entro contesti formativi infantili, adolescenziali e, in tutta sincerità, credo, persino adulti. Per questo, se vogliamo raccogliere migliori risultati professionali, non dobbiamo ridicolizzare gli aspetti affettivi e occorre dirigersi verso una didattica dell’incoraggiamento e della solidarietà. Parola di neuroscienza.

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Viaggi di istruzione: uno strumento prezioso

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Stiamo entrando nel periodo dei viaggi di istruzione: una riflessione sul tema e due proposte pratiche per gestire velocemente la procedura d’appello durante le uscite didattiche!

I viaggi di istruzione, grazie ai quali si solidificano i rapporti e si fanno esperienze, sono momenti fondamentali nella vita di studenti e insegnanti; adesso che aprile è iniziato, stiamo entrando in quella che è la classica stagione delle gite scolastiche che riemergono con una certa diffusione dopo qualche anno di rarefazioni o di vere e proprie pause dettate da condizioni al contorno ben note.

Invero, personalmente, detesto questa locuzione e preciso sempre che si tratta di “viaggi di istruzione” o di “uscite didattiche”. Questa puntualizzazione non è solo una pidocchiosa pedanteria, ma una necessità programmatica, specie nei confronti di un’utenza che, a seconda dell’età, può trascendere anche in comportamenti molto pericolosi se non contenuti entro una consapevolezza che va costruita su molti fronti.

La preparazione al viaggio di istruzione

Il primo strumento perché questo sia, quindi, è proprio quello di dare un nome corretto alle cose. Il secondo è quello di premettere all’uscita tutta una serie di atti preparatori che non sono solo quelli, pur importantissimi, di tipo burocratico, ma soprattutto quelli di ordine didattico. La commissione viaggi, ad esempio, individua le mete ed è conseguente responsabilità dei singoli consigli di classe, sia attraverso un lavoro collegiale che tramite quello individuale, anticipare cosa si andrà a vedere, spiegare quello che si andrà a fare, in modo tale che l’espletamento materiale di tutto questo sia condiviso e pre-attivato perché inserito in un brodo di significato entro il quale ci si è immersi da tempo avendo costituito un opportuno clima di aspettativa basato sugli obiettivi didattici del viaggio. La costituita zona di sviluppo prossimale lavorerà per noi. Beninteso non si vogliono trascurare quelli importantissimi di tipo relazionale che saranno maggiormente valorizzati se, prima di partire, il gruppo classe sarà stato amalgamato tramite opportune dosi di didattiche attivistiche: lavori di gruppo e cooperative learning, a titolo di esempio.

I doveri deontologici dell’insegnante

Vale la pena osservare che il lavoro preliminare ad un’uscita didattica fa parte dei doveri deontologici dell’insegnante e su questo tema si veda l’articolo 29 del CCNL 2006/2009 dove si legge: “Tra gli adempimenti individuali dovuti rientrano le attività relative alla preparazione delle lezioni e delle esercitazioni”. Le locuzioni “viaggio di istruzione” e “uscita didattica” chiariscono a tutti, quindi, che si tratta di vere e proprie lezioni erogate secondo una modalità diversa.

A tutti è noto il fatto che ogni volta che si esce da scuola non vengono meno i doveri di vigilanza degli insegnanti e questo tema sarebbe da analizzare con una certa attenzione, magari entro la pubblicazione di linee guida.

Vale la pena rilevare il fatto che anche un docente ha diritto al riposo, quindi varrebbe la pena esplicitare i limiti del dovere di vigilanza. Temo che più che giuridici siano di tipo culturale, infatti tutta la partita della sicurezza, regolata nel nostro paese dal Testo Unico, ha fonti primarie in quella europea, ma in Finlandia se si chiede ad un insegnante: “chi è che guarda i bambini quando sono nell’intervallo mentre gli insegnanti si rifocillano?”, si ottiene una risposta molto semplice e ovvia: “sono in giardino a giocare, cosa potrebbe succedere?”. Questa risposta, tuttavia, non sarebbe sufficiente ad un giudice italiano.

Mancati finanziamenti

Vale la pena soffermarsi sui mancati finanziamenti a sostegno di questa particolare forma didattica. Sono scarsi e differiti sul fronte delle famiglie, che possono solo dichiarare le spese effettuate nella dichiarazione dei redditi, vedendosi restituire il 19%. Sono sostanzialmente assenti quelli per gli insegnanti, a meno di invocare il fondo di istituto che, tuttavia, essendo misero non può coprire questa questione senza scoprirne un’altra.

Due proposte per gestire velocemente la procedura dell’appello

Vorrei concludere questo intervento fornendo agli/alle insegnanti un piccolo strumento utile per gestire velocemente la procedura dell’appello quando si è fuori da scuola. È ovviamente utile che questa procedura sia frequente perché il rischio è quello di perdersi qualcuno per strada.

Prima proposta

Una prima possibilità è quella di etichettare le studentesse e gli studenti assegnando a ciascuno un numero in sequenza. All’ordine “Appello per numero!” si dovrebbe udire: “uno, due, tre…”. La procedura è veloce, ma ha il rischio di udire tutti i numeri, uno dei quali citato da un buontempone complice di un fuggiasco, non è nullo.

Seconda proposta

Una seconda possibilità è quella del controllo diffuso. All’ordine “Appello per controllo diffuso!”: Ogni studente/essa deve verificare la presenza di chi segue nella lista (che può essere quella alfabetica della classe, ma anche di più classi). Ovviamente l’ultimo della lista controlla il primo. La velocità di questa procedura è strabiliante perché si tratta di un controllo parallelizzato e ha tuttavia due difetti.

Il primo è lo stesso già citato, dove il complice deve essere lo studente che precede, mentre il secondo è legato alla capacità di controllo da parte di persone non sufficientemente responsabili o capaci, ad esempio particolari tipi di disabilità, che potrebbero non riportare un’assenza.

Una variante della seconda possibilità ha lo scopo di evitare la penosa esclusione dei disabili dalla lista dei controllori, scippandoli di una responsabilità che altri esercitano normalmente e marcando la loro differenza. Ciascuno dovrà controllare non già il seguente (e basta), ma il seguente e il precedente (o, ancora, due seguenti e due precedenti) in modo tale che il fenomeno della complicità diventa di difficilissima realizzazione (ho bisogno di due o di quattro complici per sparire) e quello dell’errore del singolo, disabile o no, ininfluente perché ciascuno è monitorato da due o da quattro persone diverse. Naturalmente se ciascuno deve controllare due o quattro altri studenti, i tempi di chiusura della procedura si allungano, ma restano assai contenuti. Certamente molto inferiori ad un appello classico che prevede di chiamare i presenti uno per uno.

Un altro articolo sul tema dei viaggi di istruzione lo puoi trovare qui!

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Una riflessione sul ruolo dei dirigenti scolastici

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Non è raro imbattersi in commenti negativi o addirittura offensivi ai danni dei dirigenti scolastici. Ma se da un lato soddisfare le esigenze dell’intero corpo insegnante è molto difficile, dall’altro non dobbiamo cadere nella facile generalizzazione.

In passato era già stato affrontato, su OcchioVolante, il tema dei dirigenti scolastici (lo trovate qui). Torno però volentieri sull’argomento, dal momento che sui social non è raro imbattersi in commenti di insegnanti che si scagliano contro i dirigenti scolastici. Ad esempio, recentemente, mi sono imbattuto in questo:

Salvo rarissime eccezioni, i dirigenti scolastici sono dei pazzi esaltati. Il loro ruolo andrebbe ridimensionato di molto.

Bisogna riflettere su questo genere di aggressività che, naturalmente, in qualche caso può anche essere stata generata da inneschi meschini. Questo perché i dirigenti scolastici e le dirigenti scolastiche italiane sono poco più di ottomila e pensare che siano tutti perfettamente adeguati è aspettativa statisticamente piuttosto ingenua.

È utile ricordare che tutti i presidi sono stati insegnanti. Ma è pensabile che siano così tanti quelli criticabili in questo modo?

È difficile che sia così, ma si tratta di un fenomeno che si spiega facilmente. Ogni dirigente scolastico è sottoposto alla critica di un intero collegio dei docenti (oltre che di quello del personale ATA, degli studenti e delle studentesse e delle famiglie). È ovviamente impossibile soddisfare le aspettative (e in qualche caso gli interessi) dell’intero corpo insegnante ed ecco che, se anche una percentuale esigua di questo è in significativo disaccordo con il dirigente scolastico, si manifesta sul campo un confronto pubblico tanto vivace quanto impari sul fronte del numero delle forze retoriche che si affrontano (ad esempio in rete).

Un cinque per cento di docenti in disaccordo con la dirigenza, quale che sia l’origine del disaccordo, produce una proporzione di otto contro uno. Quantitativamente Golia contro Davide.

Esiste poi un fenomeno curioso, specie nel mondo della scuola. Coesiste nell’insegnante una doppia natura. Quella del professionista riflessivo che gode di quella che è nota come “libertà di insegnamento” e quella del dipendente. Parimenti nel dirigente scolastico c’è una doppia natura. Quella del coordinatore didattico impegnato nel dare un’impronta unitaria e omogenea alla scuola e quella del “capo ufficio”.

Non di rado ci sono scontri incrociati tra questi diversi piani. Ci può quindi essere un confronto causato da una diversa vision sulla politica della scuola, nella quale il confronto è sostanzialmente tra il collegio dei docenti e il dirigente scolastico; oppure, ci può essere uno scontro tra un docente inadempiente sul piano dei doveri del dipendente che, tuttavia, quasi inevitabilmente si trasformano in ritorsioni contro il dirigente nel dibattito interno alla scuola.

La tutela della riservatezza

Un esempio classico è quello del docente che ha subìto un procedimento disciplinare, diciamo ad esempio perché “ritardatario cronico”. In collegio, questi sistematicamente gioca un ruolo contrastivo non già per convincimento didattico o tecnico o finanche politico, ma per evidenti motivi di tipo emotivo.

In questo caso si tratta di una umana interferenza tra i diversi aspetti dei reciproci ruoli che tuttavia produce una distorsione. Il dirigente scolastico è tenuto alla tutela della riservatezza e non può svelare questo elemento che, non di rado, è la vera causa delle infinite polemiche fomentate da qualcuno.

Ci sono poi elementi che pongono il dirigente scolastico contro alcune aspettative, anche consolidate, dell’intero collegio, ma che sono legate a norme di legge. Pur esplicitando queste norme, non tutti hanno l’onestà intellettuale di accettare le cose per quelle che sono. L’obiezione più frequente in questi casi è la seguente:


Nella scuola tale, si fa in questo modo.

Per quanto esposto, evidentemente, in quella scuola c’è un dirigente scolastico che si espone alle critiche del proprio direttore generale o che ritiene più utile glissare sulla norma per non affrontare un organo collegiale che evidentemente disistima non ritenendolo abbastanza professionale. Tuttavia, di questa timidezza, potrebbe doverne rispondere in sedi diverse da quella del Collegio dei Docenti.

La differenza di vision

L’elemento più gravoso da gestire del fenomeno, tuttavia, è legato alla differenza di vision che si può manifestare tra il dirigente scolastico e il collegio dei docenti; ma anche il bilanciamento dei poteri, non sempre del tutto chiaro, giacché, formalmente, al dirigente è imputato il ruolo organizzativo, mentre il collegio ha potestà nella progettazione didattica.

La discrezionalità tecnica

Quella che si chiama “discrezionalità tecnica” assegnata al collegio dei docenti dalla vigente normativa, tuttavia dovrebbe muoversi entro il binario della professionalità e quando così non è (ad esempio per risibili motivazioni), non è chiaro ad alcuno quale potrebbe essere il risultato di un diniego ad ottemperare da parte del dirigente giacché oltre alla Legge c’è anche la giurisprudenza e la magistratura che si esprime anche in maniera differenziata.

Ovviamente è una mera illusione che un organismo di più di cento persone possa manifestare una conoscenza completa dei documenti di cui bisogna tenere conto per un parere informato, ma gli organi collegiali sono ancora quelli degli anni settanta giacché il testo unico della scuola, pur essendo del 1994, riporta il testo dei vecchi “decreti delegati” con un copia e incolla.

Il ruolo del collegio dei docenti

Il ruolo del collegio dei docenti, in teoria, sarebbe tecnico, si diceva. Deve infatti decidere di didattica, ma la sua veste plenaria rende di fatto impossibile una discussione di tipo argomentativo in quanto al termine dell’ostensione degli elementi necessari per prendere decisioni informate si può fare spallucce e votare in maniera incoerente con quanto appena enunciato.

Nel mestiere di un dirigente scolastico, molto spesso le decisioni sono obbligate, ma un organismo collegiale fatica a capire che la collegialità non dà il potere assoluto, ma deve restare nell’alveo delle possibilità tecniche del ruolo.

Nascono così, a mero titolo di esempio, proposte di “mozioni contro la guerra” che spesso sono persino condivisibili, ma non nel potere dell’organismo (e dovrebbero essere demandate all’Assemblea Sindacale). Più discutibili sono tutte le limitazioni che il collegio pone ad operatività didattiche, ignorando il diritto all’istruzione.

Una riforma degli organi collegiali

La riforma degli organi collegiali è quindi urgente. Occorre infatti espellere dal sistema di gestione della scuola quella vena di autoindulgenza che, ad esempio, impedisce di deliberare vincoli sulla formazione che, teoricamente, è “strutturale, obbligatoria e permanente”, ma che non lo diventa nel momento in cui chi è investito di stabilire quale e quanta formazione fare, non fa che elaborare delibere generiche perché quelle stringenti non trovano una maggioranza.

Provi il lettore, in quasi cinque lustri di “autonomia scolastica”, una buona prassi che abbia messo una scuola all’attenzione pubblica per quell’innovazione che apre a pratiche diverse (“è consentito tutto ciò che non è vietato”, disse il Ministro Berlinguer alla fine del secolo scorso).

Se il lettore non fosse “uomo o donna di scuola”, la risposta potrebbe mancare per poca frequentazione, ma proviamo a fare questa domanda ad un amico, ad una vicina di casa, ad una qualsiasi conoscenza personale del mondo della scuola. Si otterrà un sorpreso o imbarazzato silenzio.

L’abolizione dei voti numerici

Ne propongo, tuttavia, una io: la sperimentazione di un liceo romano che ha abolito i voti numerici in itinere. Qual è quindi la possibile soluzione? Innanzi tutto occorre riconfigurare il lavoro del Collegio dei Docenti per commissioni deliberanti. In seno a queste si otterrebbero due risultati. Il primo è che nelle medesime convergerebbero le persone tecnicamente competenti su un dato argomento.

Il secondo è che in quel tavolo il livello argomentativo risulterebbe più pregnante, giacché sarebbe impossibile nascondersi nell’anonimato di un voto collettivo che, in quel contesto, diventerebbe palese. Il fatto che dette commissioni debbano essere deliberanti è conseguenza legata all’esperienza di questi lustri di autonomia non praticata.

Già oggi il Collegio dei Docenti lavora per commissioni, ma tutte le volte, prima della plenaria, si domanda: “Ma questo passa in Collegio?” e, naturalmente, si configura in funzione di aspettative pragmatiche che non possono che essere al ribasso.

Paradossalmente, la vera riforma non può che consistere nel rendere il ruolo tecnico del collegio dei docenti di tipo consultivo, passando il ruolo deliberante al consiglio di istituto, trasformato in consiglio di amministrazione allargato ai portatori di interesse delle scuole, cosa assolutamente urgente nell’ambito degli istituti tecnici.

Dico “paradossalmente” perché un Collegio dei Docenti che fornisca pareri tecnici seri, deve essere in grado di motivarli e questi diventerebbero più pregnanti e impossibili da aggirare se le argomentazioni fossero ineccepibili, cosa che sarebbe nel caso di parere consultivo (altrimenti non avrebbe senso fornirle).

È esattamente quel che succede a livello nazionale nel Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione che esprime pareri obbligatori (c’è giurisprudenza sul tema), ma che possono essere accolti o no dal Ministro di turno. Evidentemente, laddove non fossero accolti, sarà necessario argomentare la loro confutazione o fornire spiegazioni del caso che, nel caso delle scuole di oggi, potrebbero essere espresse dal dirigente scolastico o dal consiglio di istituto.

Foto di copertina LinkedIn Sales Solutions su Unsplash

Abolire le insufficienze (no, non è il 6 politico)

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I voti insufficienti sono un’inutile tortura, lo scopo dell’insegnante è rilevare gli apprendimenti, non quello di punire: la proposta di Paolo Fasce, ex docente e neo dirigente

In un capitolo della mia tesi di dottorato ho dimostrato che i voti sono una prassi che non ha fondamento scientifico. In un articolo su un blog de Il Secolo XIX, dove parlo di scuola in un contesto generalista, mi sono divertito a mettere in ridicolo le valutazioni assegnate nella scuola italiana.

Esistono studi molto seri e riflessioni altrettanto profonde emergono dalle prassi consolidate che traspirano violenza. Penso a quando, in genere nelle prime settimane di una classe prima, gli alunni disabili, non essendoci ancora un Piano Educativo Individualizzato, sono torturati da valutazioni gravemente insufficienti laddove il maestro Manzi scriverebbe “Fa quel che può, quel che non può non fa”. La scuola si è trasformata in un delirio valutativo (si pensi al voto, per quest’anno scampato, di Educazione Civica) che assorbisce molte energie didattiche, senza un vero ritorno nei risultati a medio o lungo termine, come mostrano diverse indagini puntualmente riportate dai quotidiani in tono scandalistico. Analisi e studi sempre ineccepibili, ma latitano le controproposte.

Esistono soluzioni altrettanto serie e pratiche altrettanto profonde, ma nella scuola secondaria sono state abolite le S.S.I.S., ridotte da due ad un anno col T.F.A. e quando il F.I.T. sembrava dare respiro alla preparazione pedagogica e didattica degli insegnanti di questo segmento, connettendola, addirittura con il reclutamento, ecco puntuale l’abolizione di uno strumento che avrebbe formato docenti con competenze nella psicologia dell’età evolutiva, nelle dinamiche di gruppo, nella pedagogia speciale, nell’inclusione scolastica e, naturalmente, nella didattica disciplinare. Tutto sostituito da ridicoli 24 CFU spesso conseguiti secondo modalità così povere da risultare imbarazzanti.

È la legislazione vigente ad essere fonte di problemi insospettati, pur essendo avanzata e inesplorata in molti contesti, perché nessuno pensa che il voto sia uno strumento innaturale, essendovi educato fin da bambino. Denuncio questo abbaglio e, nel presente articolo, avanzo una proposta, tutto sommato molto semplice: abolire le insufficienze, in un modo molto simile a quello che avviene nelle università.

Il male affonda addirittura nel Regio Decreto 653 del 4 Maggio 1925 che all’art. 79 recita: «… I voti si assegnano, su proposta dei singoli professori, in base ad un giudizio brevemente motivato desunto da un congruo numero di interrogazioni e di esercizi scritti, grafici o pratici fatti in casa o a scuola, corretti e classificati durante il trimestre o durante l’ultimo periodo delle lezioni». Tutti i PTOF riportano quindi la frase “congruo numero di voti” e tutti gli insegnanti sono costretti a darli. Il rischio è quello di soccombere di fronte al giudice a seguito di un ricorso. A scuola si inseguono gli studenti per dare dei voti, all’università sono gli studenti che vanno a prenderseli.

Una prima considerazione porta a notare che le prassi si siano troppo spesso addensate sul voto scritto e sul voto orale anche secondo modalità anacronistiche (si pensi ai temi, ancora scritti con la penna d’oca). Il Regio Decreto, invece, di fatto autorizza a dare il voto ai quaderni, agli esercizi fatti a casa e, naturalmente, a quelli che possono essere fatti a scuola in isole di lavoro solidale, sinergico, attivo.

Propongo di suddividere la programmazione annuale dell’insegnante, possibilmente progettata e condivisa in seno ai dipartimenti disciplinari, in unità didattiche. Fin qui, nessuna novità. Lo studente dovrà quindi dimostrare di avere raggiunto gli obiettivi minimi per ciascuna di esse. Anche questi ultimi vanno dichiarati nella programmazione, in particolare per quanto dettato dalla normativa sull’inclusione scolastica. Tutti devono sapere qual è lo scopo del gioco (in modo tale che le risorse familiari vengano ben spese) e gli obiettivi minimi. La partita deve quindi essere fair. I voti, quindi, potrebbero essere: “apprendimento in via di maturazione” (senza indicazione di un numero), laddove non si rilevi la sufficienza. Poi, propongo: A, B, C per le sufficienze che possono essere tranquillamente ridotte a tre livelli.

Il numero di voti, di conseguenza, dipende dal numero di unità didattiche che, invero, potrebbero anche essere accorpate nella rilevazione, dove queste siano di modesta entità. I due e i tre, non esisterebbero più. La sospensione del giudizio sarebbe legata alle unità didattiche per le quali non si è ancora rilevato il livello di sufficienza. Le medie dei voti non sarebbero più possibili. La giurisprudenza si dovrebbe completamente ricostruire anche entrando nel merito di certe prassi e non meramente facendo la media dei voti che sarebbe istituzionalmente sufficiente, ma non certo significativa. E i disabili con programma differenziato, o con obiettivi minimi, non più torturati.

Le classi del “Gnente” e la didattica passiva della scuola italiana

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Cosa può fare un Dirigente Scolastico per favorire evoluzioni didattiche?

Sul numero di domenica 18 agosto 2019 de L’Espresso appare un articolo a firma di Susanna Turco dal titolo “Francoforte-Roma e ritorno: l’anno spericolato della prof nelle classi del Gnente”, sottotitolo: “Quarant’anni, laurea in filosofia, Ottavia Nicolini (figlia di Renato, l’inventore dell’Estate romana) dopo un decennio in Germania è stata richiamata come docente “potenziato”. Ecco la sua esperienza in un istituto al confine della Capitale”.

Da futuro dirigente scolastico mi sono posto il problema delle ore di potenziamento, che ritengo simili a quelle di Attività Alternativa all’Insegnamento della Religione Cattolica e, pure, a quelle nelle quali l’insegnante di sostegno “sostituisce” la/il collega di posto comune. Si tratta di tre situazioni nelle quali l’ambiente, cioè gli studenti, abituati a didattiche direttive e frontali, si sentono largamente autorizzati a non fare niente. Nell’anno in cui sono stato insegnante di Attività Alternativa in una classe formata da persone a me sconosciute e sulle quali “non avevo alcun potere”, sono riuscito a fare un paio di lezioni. Poi lo sforzo sarebbe stato immane e ho dovuto ripiegare sullo studio assistito nel quale era ampia la possibilità del dolce far niente. Da insegnante di sostegno è stato più semplice “prendere il potere”. Qualche volta perché ero “insegnante misto” e quindi, semplicemente, ho fatto la mia materia. Più spesso perché nel corso delle lezioni in compresenza avevo comunque costruito la mia immagine di insegnante nei confronti degli studenti. Sia chiaro che anche da insegnante di matematica mi è stato difficile entrare in una mia classe in un’ora di assenza improvvisa di una collega e fare la mia materia,. Le lamentele sono forti e negli ultimi due anni credo di esserci riuscito non già perché “sono un bravo insegnante”, ma perché per un anno sono passato al ruolo di vice preside che, fornendomi di un investimento gerarchico, ha alterato della grossa, a mio vantaggio, le percezioni degli studenti.

Nella scuola italiana, tuttavia, non tutti possono essere nominati vice presidi, non tutti sono grandi e grossi (non è indispensabile né necessario, ma aiuta), non tutti sono esperti, radicati e strutturati (idem), quindi abbiamo un problema di sistema perché tante ore sono buttate letteralmente via e ciò che si assicura a scuola è la mera vigilanza. Mera vigilanza significa vilipendere tutte le belle parole che descrivono la professionalità docente nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro che, di fatto, si riduce a garantire tutele molto basse nella piramide di Maslow.

L’articolo che nel presente intervento sostanzialmente commento, nel descrivere l’esperienza di un’insegnante di filosofia assegnata in un istituto tecnico (ci sarà bisogno di “educazione filosofica” nei tecnici? io penso di sì), rientrata in Italia grazie al potenziamento della Legge 107/2015, mette in evidenza alcune deprimenti differenze tra il sistema passivizzante italiano e il sistema attivistico tedesco.
È necessario citare un breve passo dell’articolo:

In aule che, a dispetto di quanto ci si aspetterebbe, sono assai più fredde di quelle di Francoforte («la maglia di lana mi è servita a Roma, non in Germania»), l’inizio di qualsiasi ora di lezione era, anzitutto, un rotondo no. Assolutamente no. «La prima difficoltà era farsi ascoltare, superare quel rifiuto, rompere il muro del niente. In Germania, soprattutto se sei un docente italiano, nell’anno di affiancamento che è previsto ti insegnano a superare il metodo della lezione frontale: quella in cui tu parli e gli studenti stanno zitti e ascoltano. I tedeschi pensano che l’Italia sia didatticamente più indietro di quanto non siamo in realtà, ma è vero che quel metodo la scuola italiana, almeno quella che ho visto io, non l’ha ancora davvero abbandonato. E va anche detto che io stessa, dopo anni nelle scuole tedesche non vedevo l’ora di tornare al metodo frontale: zitti e ascoltate, basta con questa interazione». Però poi, abituata a classi curiose e aperte agli stimoli, ha ritrovato l’oppositività italiana. «Un’opposizione fortissima a qualsiasi proposta fuori dall’attività scolastica, quella che prevede che tu stia fermo ad ascoltare la lezione, oppure che giochi col cellulare durante le pause. A un certo punto, a caccia di attività terze, ho provato a far costruire una playlist a una classe: ognuno indicava la sua canzone preferita, poi si votava, alla fine avremmo ascoltato le prime tre classificate. Un modo per fare stare insieme i ragazzi che li ha pure entusiasmati. Ma è stato difficile gestire anche quello». Si dice che chi si ama si ascolta, là era persino difficile accettare che qualcun altro aprisse bocca. «I ragazzi parlavano sopra, non rispettavano i turni, non sapevano collaborare. Uno magari per l’entusiasmo saltava in piedi sopra il banco, un altro faceva partire una cassa bluetooth grossa come un bollitore nascosta sotto un mucchio di cappotti, un altro lanciava in aria il telefonino. Complessivamente, ho trovato studenti che rispondevano soltanto all’imposizione delle regole: di fronte alla severità sono timorosi, se devono stare zitti lo sanno fare, ma se invece gli chiedi di stare attivi, se gli dai la libertà, impazziscono, non sanno come gestirla, non sanno che farsene perché non è più un’attività scolastica, non è obbligo, e allora non hanno la casella corrispondente: è gnente. Come se tutto il sistema fosse organizzato per esaltare la passività: una cosa diversa li manda in tilt, e allora si parlano addosso, non sanno regolarsi. Che poi è una questione culturale, è quello che succede anche fuori, in qualsiasi talk show dove vince chi parla più forte».

Ecco, siamo di fronte ad una insegnante esperta, che non solo è stata formata, ma ha anche praticato didattiche attive (in Germania). Nella scuola italiana, tuttavia, la sua professionalità matura è disinnescata, diventa una risorsa latente perché non è in grado di fare un altro tipo di scuola. Gli studenti non la riconoscono come scuola, sono abituati alla routine lezione-studio-interrogazione-voto-oblio. Quanto accaduto alla prof.ssa Nicolini è sostanzialmente quello che succede anche a legioni di docenti formati dalle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario e dai successivi Tirocini Formativi Attivi e, in buona misura, a quelli (soprattutto quelle) formati a Scienze della Formazione per il primo segmento di istruzione. In questi casi la formazione non è mancata, ma la pratica si infrange subito sulle dinamiche della scuola italiana che tritura le novità, tanto è vero che nella scrittura di un PON mi divertii a scrivere, nel campo in cui mi veniva chiesta dove fosse l’innovazione: fare davvero quanto qui dichiarato, noto per essere “innovativo” da cinquant’anni, ma non si fa.

Tornando all’inizio, continuo a chiedermi cosa possa fare un Dirigente Scolastico per favorire evoluzioni didattiche. Di certo può impedirle, come mi capitò quando feci approvare dal Collegio dei Docenti una proposta di didattica tra pari per i corsi di recupero, ma appena stesi una bozza di circolare il Dirigente mi scrisse che se intendevo applicare tale metodologia mi avrebbe revocato l’incarico in quanto il risultato doveva essere garantito dalla mia stessa professionalità docente. È quindi già una gran cosa non impedire le didattiche attive, ma soprattutto penso che un Dirigente Scolastico debba attivare una riflessione condivisa sull’inclusione degli insegnanti non di posto comune perché spesso vivono di luce riflessa e devono quindi essere “illuminati pre bene”, autenticamente, nelle prassi, non solo nell’esplicito, ma nell’implicito, nel linguaggio del corpo, nei fatti.

Credo che, infine, dovrò fare tesoro di un commento di Antonio Vigilante che, nelle discussioni sui social su questo stesso tema, ha scritto: “Temo che un DS possa far poco per indirizzare la didattica, sul piano per così dire della forza. Ma conosco DS che riescono a farlo con l’entusiasmo”.

Scuola: il nodo irrisolto della cattedra mista

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Paolo Fasce, professore di matematica applicata e informatica, analizza una rigidità apparentemente ineliminabile della scuola italiana

Esiste una rigidità molto significativa nella scuola secondaria che è legata alle “classi di concorso“. È una rigidità apparentemente ineliminabile, un(‘)insegnante di latino non può insegnare anche elettronica. Eppure ci sono esempi in Europa dove le materie insegnate da una persona sono molto diverse proprio perché questa professione è pensata e progettata a monte, già nella selezione per la formazione iniziale degli insegnanti che vengono individuati all’università. Un po’ come per medicina. Una volta che uno è laureato, sceglie la specializzazione, ma se queste sono sature, si adatta. Ed ecco che dopo un triennio di “laurea generica” si possono formare insegnanti di “elettronica e geografia” o altre coppie bizzarre similari.

Nella nostra scuola di “cattedre miste” ne esistono già due. Si tratta di “Matematica e Scienze” nella scuola secondaria di primo grado e di “Matematica e Fisica” in quella di secondo. Poi esiste il fenomeno delle abilitazioni plurime. Ad esempio io lo sono in matematica applicata e informatica (nota: uso nomenclature vecchie, ma ben note a tutti). Personalmente sostengo anche l’esigenza della cattedra mista “Matematica e Tecnologie” nelle scuole medie per compensare la mancanza di personale in questo segmento, in particolare in matematica, consentendo quindi di attingere non solo alle lauree “biologiche” ma anche a quelle “tecniche”.

Esiste una proposta, quella della cattedra mista “materia+sostegno” che ha lo scopo di recuperare risorse latenti tra gli insegnanti di ruolo passati ad insegnare la propria materia, ma specializzati sul sostegno. Io non credo a Babbo Natale e quindi ritengo che una cattedra del genere, per essere concretata e diffusa sul territorio, oggi resa materialmente possibile dal D.Lgs.66/2017, dovrebbe essere incentivata e l’unico modo che mi pare sensato sia quello delle ore eccedenti. In questo modo, distribuendo i casi tra gli insegnanti di ruolo, si eviterebbero situazioni imbarazzanti di insegnanti senza specializzazione pescati da graduatorie senza garanzia di professionalità e ci si troverebbe a recuperare risorse preziose presenti e inutilizzate a scuola: la professionalità e l’esperienza.

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