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Byod: le potenzialità dei dispositivi digitali a scuola

in STEM ed Esperienze digitali by
Francesco Leonetti e il byod: grazie alle app che ne sfruttano le funzionalità possiamo trasformare gli smartphone in strumenti didattici fantastici. A poterlo e saperlo fare…

A me piace ogni tanto sfoggiare un po’ di anglofonie. Fanno effetto, un po’ come la nebbia artificiale sul palco dei concerti rock. Sbuffate di fumo nelle quali il chitarrista viene avvolto mentre si contorce nel suo assolo. Fa spettacolo. Qui però si esagera: BYOD. Già non si capisce come va pronunciato l’acronimo: bìod, biòd o come? I puristi pronunciano: baiod, come se stessimo parlando inglese, appunto.

L’espansione dell’acronimo è più ostica: bring your own device. In particolare, la pronuncia di “your own” byodcostringe a restare protesi e incastrati con le labbra come se volessimo dare un bacio a qualcuno che invece non lo vuole, e ad un lavoro tutto interno difficile da rendere e piuttosto innaturale per le nostre esperienze di fonetica italica. Poi c’è quel device a confondere ulteriormente. E niente, alla fine abbiamo tradotto tutto in: cellulare a scuola.

Quando si mette insieme cellulare e scuola, scoppia lo scandalo. Innanzitutto, il cellulare a scuola non era vietato? E in secondo luogo, per farci cosa, poi? Il precedente Ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha provato a rassicurare gli animi, proponendo un “decalogo sull’uso del BYOD a scuola”, se lo leggete (ovviamente è caldamente consigliata un’attenta lettura di tutti i punti) è un distillato di buon senso della nonna. Niente di che. Dunque, no, ora non è più vietato. Ovviamente limitatamente ad usi strettamente didattici, nei modi e nei tempi decisi e supervisionati dall’insegnante.

Rimane l’altra questione, per farci cosa?

Buona parte delle perplessità attorno al cellulare a scuola, anzi, scusate, ora è il caso di tradurre bene: dispositivi digitali mobili a scuola (includiamo quindi oltre a smartphone anche tablet, computer portatili, fotocamere digitali, eccetera), derivano da quello che genericamente si pensa si faccia – e dunque si possa fare – con il cellulare: perdere tempo e distrarsi. Le schiere di “signora mia, dove andremo a finire?”, infatti, adducono come argomento contrario al BYOD il fatto che i nostri ragazzi siano già ampiamente immersi nei dispositivi fuori dalla scuola, “ora anche a scuola?!”.

Il ragionamento di fatto si fonda su una sorta di proiezione di ciò che noi facciamo normalmente con il cellulare in un contesto altro quale è quello della classe. Un esempio dell’errore insito in questo ragionamento è dato da questa foto diventata ormai famosa. byodRagazzini in un museo olandese che invece di ammirare il capolavoro alle loro spalle, un Rembrandt spettacolare, sono immersi come al solito nelle loro perdite di tempo sui rispettivi cellulari.

Ma la storia va raccontata tutta.

I ragazzi non stavano “perdendo tempo”, ma eseguendo un’attività che l’insegnante aveva loro dato: “ragazzi, approfondite le vostre conoscenze sul quadro che avete appena visto”.
E qual è la fonte di conoscenza a nostra disposizione nella quale cercare riferimenti, confrontarli, verificarne l’attendibiità? Il web, naturalmente. E come andare, oggi, sul web? Con il cellulare, anzi uno smartphone, naturalmente. Ecco cosa stavano facendo quei ragazzi.

Stiamo facendo didattica per competenze.

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Uno smartphone consente di fare altro. Ad esempio, di prendere appunti, sia testuali che vocali, di scattare foto e girare video. Applicazioni dedicate consentono poi di editare questi materiali e di assemblarli in forma di ebook o di “tesina”, se preferite. Ed ecco che la visita al museo si traduce in un documentato studio pensato, progettato ed elaborato dallo studente. Stiamo facendo didattica per competenze.

Ma uno smartphone/tablet/dispositivo consente di andare anche oltre, ha un GPS con il quale geolocalizzare luoghi e situazioni, ha una fotocamera, uno giroscopio, un accelerometro e grazie ad applicazioni che ne sfruttano la funzionalità possiamo farlo diventare un laboratorio di fisica, di elettronica, persino di scienze.

Guardate ad esempio questa applicazione didattica offerta da curiscope.co.uk:
byodsi tratta di una applicazione di “realtà aumentata” (augmented reality). Il ragazzino indossa una speciale maglietta sulla quale sono stampati dei marcatori. Una app sul cellulare inquadra il bambino e sostituisce i marcatori con immagini tridimensionali reali. Si vede dunque, esattamente dove dovrebbe stare, il cuore che pulsa e, se il bambino si muove, si vedono gli organi che si muovono in modo coerente, come se fossero davvero i suoi. È possibile avvicinarsi per studiare più da vicino un organo o un apparato, si può seguire il percorso dei globuli rossi dal cuore fino ai polmoni e così via. Conoscete un modo migliore per far avvicinare i bambini allo studio dell’anatomia e del corpo umano? Pensate che con questo tipo di applicazione i ragazzini possano “perdere tempo” e “distrarsi”?

Un altro tipico esempio di quello che si può fare con il cellulare in classe è rappresentato da Kahoot!

byodIl docente prepara delle domande e poi invita gli studenti a rispondere usando i loro cellulari/dispositivi come “risponditori”. Si crea un magnifico effetto caciara. Gli studenti competono, in modo sano e rumoroso, nel rispondere. La motivazione e la partecipazione alla lezione sale alle stelle. Il docente, infatti, può proporre le domande prima ancora di spiegare l’argomento su cui queste vertono, avendo così il pretesto per trattarlo, approfondirlo e motivarne lo studio.

Oppure, le domande possono essere proposte a fine lezione, per tastare il polso dell’apprendimento. Il docente può anche chiedere agli studenti di realizzare un proprio Kahoot, un quiz cioè con cui sfidare gli altri compagni, chiedendo agli alunni di avere cura, per ogni domanda, di includere oltre alla risposta giusta, anche una che può essere considerata giusta e una magari completamente sballata. Ecco ancora riaffiorare la didattica per competenze.
Se poi non si dispone di un cellulare o dispositivo per ogni alunno, la soluzione alternativa è Plickers, di cui ho parlato qui. Ovviamente il “cosa posso farci” non finisce qui. Esistono innumerevoli applicazioni espressamente pensate per uso in classe o generaliste, utilizzabili anche a scopi didattici.

Esistono innumerevoli applicazioni espressamente pensate per uso in classe o generaliste, utilizzabili anche a scopi didattici

Ad esempio, pensate alla possibilità di far realizzare agli studenti animazioni in “stop motion” con cui raccontare storie legate magari agli argomenti disciplinari trattati. I ragazzi devono studiare l’argomento, ispirarsi ad esso per inventare una storia, definire i personaggi e caratterizzarli, riprodurli in realtà, fare uno storyboard, pianificare le scene e le battute, infine catturare le immagini passo-uno e montare il filmato, insonorizzarlo, scegliere le musiche, recitare i dialoghi, e così via. Quanta didattica, quante competenze con un dispositivo mobile e fantasia. Gli spunti sono davvero tanti, limitati solo dalla nostra immaginazione e creatività.

Gli spunti sono davvero tanti, limitati solo dalla nostra immaginazione e creatività

Il problema vero, però, è un altro. Realizzare questo tipo di attività didattiche, con questi dispositivi e con queste modalità, richiede un nuovo modo di fare lezione, in generale, un nuovo modo di fare scuola ed essere insegnanti. Si è disposti a farlo? Si vuole farlo? Si è in grado? E poi, si può farlo ovunque?

Se in classe non c’è un buon wi-fi, ad esempio, si deve fare affidamento solo ai “giga” dei dispositivi mobili personali. Non sempre questo è possibile e non sempre è corretto e giusto, peraltro.

Anche un insegnante preparato, curioso, motivato, dunque, può trovare ostacoli alle volte insormontabili sulla sua strada: infrastruttura scolastica carente e incoerente (mi dici di fare BYOD e poi non mi dai la connessione), famiglie non informate (“a mio figlio il cellulare a scuola non glielo faccio portare!”), colleghi ostili (“basta con queste diavolerie! Italiano l’ho sempre insegnato con gesso e lavagna!”) e così via.

Insomma, non basta pubblicare decaloghi. Occorre professionalità e formazione da parte degli insegnanti, coerenza nel fornire strumenti e risorse da parte delle istituzioni. Gli studenti, invece, sono già pronti da un bel po’.

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