giornata della memoria

Raccontare la Shoah a scuola

in Storia e Filosofia by
Immagine shoah

Una riflessione sulla Shoah e sul bisogno di ricordare non solo le vittime, ma anche coloro che c’erano e non sono restati a guardare ma hanno aiutato, rischiando. O ancora, di coloro che invece hanno deciso di rimanere immobili.

Dice Matteo Corradini che c’è una bella differenza tra la Fatina dei dentini e un racconto della Shoah. La cosa può sembrare ovvia, però Matteo Corradini dice anche che, girando tante scuole e parlando di memoria con tanti studenti, tra la Fatina e la Shoah lui ha trovato alcune connessioni. Un paio di collegamenti che a me sono sembrati bellissimi. I bambini, per esempio.

In fondo, se ci pensate, i bambini sono gli stessi: un po’ più grandi quelli a cui diamo qualche particolare in più sulla Shoah, un po’ più piccoli gli altri, ma sono gli stessi. E allora è evidente che, dietro ogni cosa che riguarda i bambini e le bambine, c’è la cura che mettiamo nel raccontare. E anche noi siamo un collegamento. Forse più noi dei bambini. 

Spesso ci siamo sentiti dire che bisogna ricordare per evitare che il passato si ripeta. Ricordare per evitare il ritorno del buio. Per me non è così, a me questa idea non ha mai convinto. La memoria non è un’assicurazione sul futuro e mi sembra che le prove di questa mancanza di automatismo, intorno a noi, non manchino. E allora perché è importante ricordare? Perché è importante che chi racconta il passato non smetta di farlo?

La mia personalissima risposta a questa domanda è un luogo fisico. Si chiama Villa Emma e si trova in un paese vicino Modena, Nonantola. Una villa come tante, ma che nel 1942 ha ospitato una settantina di bambini e ragazzi ebrei in fuga dalla Germania. E’ la storia di tutto un paese che ha aperto le porte delle case, dei negozi, dei fienili e anche del seminario, per nascondere gli ebrei. E’ la storia di un prete e di un medico che hanno stampato documenti falsi per farli fuggire. Ed è la storia, soprattutto, delle sarte che in poco tempo hanno cucito 40 cappotti, tutti uguali, per confondere le guardie con la parvenza di una gita scolastica.

Un racconto anomalo, straordinario anzi. Oggi, in diverse parti del mondo, i discendenti di quei bambini e di quei ragazzi si stanno organizzando per non disperdere il ricordo del coraggio che la popolazione di Nonantola dimostrò nel 1943.

Ecco, è questo il punto del ricordo, della memoria. Accanto alla tragedia dovremmo secondo me raccontare il coraggio, la responsabilità di chi ha visto, ma non ha lasciato correre. Di chi non si è voltato dall’altra parte. La Shoah non può restare, unicamente, la storia di chi ha subito lo sterminio: se così fosse le vittime resterebbero sole, ancora una volta. La Shoah è anche la storia di tutti gli altri, di chi c’era e ha fatto. Di chi c’era e non ha fatto. Di chi è venuto dopo e, sulla base di quell’esempio, deve decidere se fare o se restare a guardare. 

Oggi i drammi sono altri, diversi, ma davvero così meno importanti?

Parlare del passato vuol dire assumere una responsabilità. Perché attraverso il racconto che facciamo, la prospettiva che di volta in volta assumiamo, proviamo a cambiare il presente. Soprattutto noi, quelli che raccontano. Quelli che lavorano con i bambini e le bambine.

Per la bibliografia: Matteo Corradini “Tu sei memoria. Didattica della memoria: percorsi su ebraismo e Shoah alla scuola primaria”. Erickson, Trento 2022.

Sul tema del Giorno della Memoria potrebbe interessarti questo articolo, oppure questo, che consiglia 3 film sul tema.

Foto di Eelco Böhtlingk su Unsplash

Giornata della Memoria: 3 film da non perdere in classe

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3 consigli cinematografici per affrontare in classe la Giornata della Memoria

Come ogni anno, il 27 gennaio celebriamo la Giornata della Memoria.

A volte, soprattutto a scuola, si usano film e filmati per parlarne coi bambini e con le bambine e con i ragazzi e con le ragazze. A volte, purtroppo, si usano incautamente.

Il tema è delicatissimo è trattarlo con una scelta filmografica sbagliata rischia di essere persino controproducente. Un esempio solo, fra i molti.

Proiettare Schindler’s List (Usa, 1993) importantissimo e anche durissimo film di Steven Spielberg, senza un’adeguata preparazione sul linguaggio cinematografico e sull’impatto emotivo di certe sequenze può causare, è successo, che nel momento in cui l’ufficiale nazista si mette a fare il tiro a segno dalla terrazza di casa sua usando come bersagli i prigionieri del campo di concentramento, scoppino applausi inneggianti alla (orrenda) mira del militare.

È necessario, quindi, essere molto attenti, informati, rigorosi e preparati.

Mi limiterò quindi a tre indicazioni filmografiche, fra le molte possibili,  precedute da un semplice ma fondamentale consiglio: non facciamo vedere ai nostri figli e ai nostri alunni nessun film che noi non abbiamo visto e sul quale non abbiamo a lungo riflettuto in precedenza.

Per le classi terze e quarte della scuola primaria

Un brevissimo ma efficacissimo corto di animazione: Shoah di Giuliano Parodi, che trovate qui sotto:

Dura 3 minuti e 8 secondi, ma ha una forza narrativa e un impatto visivo che non possono lasciare indifferenti.

(Conosco, anche qui casi rari ma che vanno segnalati, maestre che l’hanno fatto vedere a bambini e bambine di seconda e, una volta finita la visione, hanno esclamato: “Bene, la Giornata della Memoria l’abbiamo fatta. Adesso passiamo a matematica!”. Ecco, questo è un esempio perfetto di cosa NON bisogna fare).

Per le quinte della primaria e la prima e seconda della secondaria di primo grado

Non riesco a trovar di meglio che il fondamentale Il grande dittatore (Usa, 1940) di Charlie Chaplin, ora disponibile in una versione in dvd magnificamente restaurata dalla Cineteca di Bologna.

Per la terza della secondaria di primo grado e anche per le prime classi della secondaria di secondo grado

Un film davvero molto bello è Una volta nella vita (Francia, 2014) di Marie-Castille Mention-Schaar. Il film ricostruisce la vera storia di una classe di liceo della periferia di Parigi alla quale una bravissima insegnante assegna la sfida di partecipare ad un concorso nazionale sulla memoria della Shoah.

In qualsiasi caso e qualsiasi titolo si scelga, è essenziale che la presenza dell’adulto, insegnante o genitore, aiuti a riflettere meglio su una memoria.

Perché la memoria non può essere semplice ottemperanza didattica, ma che deve radicarsi nell’animo più profondo dei bambini e dei giovani.

Le foto-illustrate: il passato che torna a vivere

in Arte, Musica e Spettacolo/Attività di classe by
Marianna Balducci ci racconta come attraverso le foto-illustrate possiamo riscoprire e far rivivere il passato.

Se fino ad ora le indagini foto-illustrate ci hanno portato alla scoperta del mondo per esercitarci a cambiare il nostro modo di guardarlo, adesso è il momento di recuperare una delle missioni più intime e personali della fotografia: la capacità di farsi depositaria della memoria.

Che si tratti di quello che ormai forse è il già un po’ antiquato album di foto di famiglia, che sia il più capiente hard disk su cui conserviamo file su file, che sia anche solo la memoria del nostro cellulare, questo flusso sempre più abbondante di frammenti di vita passata ci circonda e ci accompagna.

Il come sia cambiato il nostro modo di conservare la memoria fotografica del passato con l’avvento delle nuove tecnologie è un lungo e complesso discorso che potrebbe diventare uno spunto anche per lavorare con i più piccoli, ma qui partiremo da un interrogativo più semplice: come possiamo utilizzare questi reperti fotografici del passato (che ci possono riguardare più o meno direttamente) per raccontare delle storie?

Le tracce che ho sperimentato sono tante. Oggi vi parlo di quella che è approdata sui libri e che riguarda il recupero delle storie di famiglia, affrontato però in due modalità visive differenti che tengono conto dei vincoli imposti dal materiale ritrovato.

Da un punto di vista tecnico, si possono utilizzare fotocopie o stampe delle fotografie che decideremo di recuperare. Per arginare l’ansia di intervenire direttamente sulla foto, possiamo fornire fogli di carta da lucido (trasparente e un po’ opaca, adatta ad accogliere sia la matita che i rapidograph). La carta da lucido sovrapposta alla foto permetterà di sperimentare più modi di riempire lo spazio disegnabile proprio come se stessimo trattando un livello di Photoshop, ma analogico! Successivamente si potrà decidere se disegnare sulla foto con acrilici, gessetti o chine oppure optare per il collage (magari mantenendo la stessa carta da lucido).

Partiamo, quindi, dalla nostra storia che può essere la storia della nostra famiglia, ma anche della nostra città. Mi sono ritrovata a fare i conti con entrambe quando ho lavorato prima a “J anvud dla Marianna” (in dialetto riminese, “I nipoti della Marianna”, la mia bisnonna) e poi a “La bambina dal nastro rosso” (scritto da Stella Nosella, nipote della protagonista). Nel primo caso le foto provenivano dal mio archivio familiare privato, nel secondo invece ho lavorato sulle foto d’epoca della città di Portogruaro dove è ambientata la storia.

Si potrà quindi decidere di partire chiedendo a ciascun bambino di ripercorrere il passato della sua famiglia portando a scuola alcune foto che siano legate a un ricordo, anche non vissuto direttamente e solo riportato: quel bisnonno dall’aspetto distinto che carattere aveva? Ci sono aneddoti su di lui? Qual era il suo mestiere? Oppure: quella casa di campagna davanti alla quale posano tante persone dove si trova e chi ci viveva?

Trovare foto non in posa non sarà facile, ma consiglio di scandagliare album e archivi (fotografici ma anche mentali), lasciando che le storie ricomincino a circolare libere e spontanee (una cosa che, per esempio, a casa mia è sempre accaduta, specialmente nei momenti di condivisione come i pasti).

Si potrà altrimenti optare per un lavoro collettivo che apra lo sguardo sulla storia della propria città, cercandone tracce sui libri. In questo caso, con le insegnanti, si potranno attivare contatti con la biblioteca e l’archivio storico cittadini per richiedere l’accesso al repertorio fotografico di alcune epoche precise. Nel caso de “La bambina dal nastro rosso” la scelta ricadeva su un periodo critico: è infatti il Natale 1944 il periodo in cui si svolge la storia di Antonia (una bambina di 8 anni) che si ritrova a fare i conti con la guerra, la deportazione, la sua città che cambia.

Mentre nel primo caso gli archivi di famiglia ci regaleranno probabilmente molti volti attorno ai quali ridisegnare le storie da rievocare (come nel caso della mia bisnonna Marianna che si è rimboccata le maniche e ha trasformato una modesta osteria in un trionfo di sapori e accoglienza), in questo secondo caso un archivio collettivo pubblico avrà bisogno di “attori” per consentire alla storia di rivelarsi. Ecco perché Antonia è disegnata e si muove attraverso la città (seguendo i fatti narrati) permettendosi anche qualche licenza fantastica: Antonia non è “solo” una bambina, ma è anche una gigantesca eroina pronta a difendere la sua casa da tutto e tutti.

Lavorare sulle foto che ci ricordano qualcosa o qualcuno ci permette di trasferire su carta un processo che la nostra memoria compie istintivamente: riempire gli spazi vuoti delle immagini con il racconto, completare le storie incomplete e, laddove i pezzi del puzzle sono irrecuperabili, ricorrere all’immaginazione. La memoria è potente, la memoria è preziosa. Ridisegnare la memoria vuol dire permetterle di manifestarsi e riabituarci a tenerla in circolo, come un filo che ci lega e ci collega, come il prezioso nastro rosso di una bimba che diventa il pretesto per conservare la storia di una città intera.

Crediti immagine di copertina da ” J anvùd dla Marianna. Una vetrina sul Borgo San Giuliano”, di Roberto Balducci, illustrazioni di Marianna Balducci, Panozzo editore.

Crediti immagine centrale: a sinistra tratta da “J anvud dla Marianna. Una vetrina sul Borgo San Giuliano”, di Roberto Balducci, illustrazioni di Marianna Balducci, Panozzo editore. A destra tratta da “La bambina dal nastro rosso”, di Stella Nosella, illustrazioni di Marianna Balducci, L’Orto della Cultura edizioni.

Il giorno della memoria: un approccio WRW

in Approcci Educativi/Attività di classe by
Sabina Minuto e il metodo WRW: ricordare in classe il giorno della memoria, costruendo insieme ai ragazzi strumenti di pensiero.

Il 27 gennaio, il giorno della memoria, è arrivato. Non l’ho mai considerato una ricorrenza. Qualcosa da celebrare in classe, anzi. Nemmeno per nobili fini, che tuttavia comprendo. Troppe volte tutto è finito in retorica e la ricaduta didattica è stata zero. Da alcuni anni poi ho come percepito la sensazione che stiamo sbagliando. Stiamo sbagliando tutto.

Altrimenti non si spiega come a distanza di anni da quando è stata istituita questa ricorrenza in Italia, in realtà, le ragioni profonde che dovrebbero farci inorridire di fronte a fenomeni simili non sono diventate patrimonio comune. Lo dimostrano ogni giorno fatti di cronaca noti o meno noti.

Una mia cara collega mi raccontava tempo addietro di come un suo alunno lo scorso anno abbia dimostrato insofferenza verso la visione dell’ennesimo film sui campi di sterminio. Ha detto che non ne poteva più di vedere e sentire ogni anno le stesse cose.

Ecco, questo per me è un segnale che i docenti dovrebbero cogliere.

Si rischia di ottenere con narrazioni ripetute e poco meditate questo effetto. Non è certo colpa dello studente. È colpa credo di come in questi anni abbiamo lavorato (forse male) su questo argomento.

In questa settimana di gennaio, in tutte le mie tre classi faremo un’immersione” in stile WRW. Unendo lettura e scrittura, italiano e storia, comprensione del testo e strategie argomentative.

Ecco alcune delle attività da fare in classe per il giorno della memoria
  • Lettura dei testi con cui alcuni miei alunni hanno vinto un concorso tre anni fa, usando come testo mentore anche l’albo illustrato “L’albero di Anne”. Si tratta di testi semplici ma incisivi. Storie di donne nei campi di sterminio e storie di oggetti di Anna Frank. Ci avvicineremo così all’argomento.
  • Lettura dell’albo illustrato “La storia di Erika” dove è evidente (anche nelle tavole) la dicotomia vita/morte.
  • Schema a Y e molte domande.
  • Nessun film quest’anno. Non ne posso più. Nemmeno foto dei campi. Se ne vedono troppe già in giro. L’abuso non aiuta. Invece filmato originale del processo Eichmann. Senza troppe parole di introduzione. Userò la routine suggerita dal testo Making thinking visible che sto studiando da un po’, STW: cioè guarda/pensa/fai domande o supposizioni in modo da rendere il pensiero degli studenti visibile e scritto su carta per step successivi.
  • Consegna di qualche estratto originale dal testo di Hannah Arendt “La banalità del male” e lavoro con la routine del sottolineare le tre frasi che: ti stupiscono, ti ricordano, ti fanno venire in mente una domanda.
  • Quick write su una frase scelta da quel testo.
  • Letture (brevi e scelte sul momento a seconda dell’umore della classe) dal libro della Segre e dal libro di Primo Levi “I sommersi e i salvati”.
  • Infine share time strutturato, dal titolo “La linea di confine”, ovvero: da che parte stiamo? Dove sta il male? Come è potuto succedere tutto ciò? (che nelle terze ci sta a pennello perché sto lavorando sul concetto di frontiera dall’inizio dell’anno). In quinta sarà esercizio di scrittura (3 paragrafi) per l’esame.

Sono pronta a imbattermi anche in affermazioni spiacevoli o immotivate, tipiche dei ragazzi che non sanno accettare sfumature o non conoscono a sufficienza cosa successe o hanno visto solo e sempre “La vita è bella” e “Il bambino con il pigiama a righe”. Bei film (a me non sono piaciuti ma non vuol dire) che però non costruiscono pensiero o almeno non bastano a costruirlo.

Io credo che dobbiamo alzare un po’ l’asticella e chiedere di più ai ragazzi. Credo che occorra farli pensare. E per farli pensare occorre costruire strumenti di pensiero.

So già quale sarà la connessione iniziale della mia ML sul processo Eichmann:

“L’11 aprile 1961 fu per il mondo una data storica. Non perché sono nata io, ma perché iniziò in Israele un processo che avrebbe cambiato per sempre la storia della Shoah e degli ebrei dello stato di Israele e del mondo”.

E poi via a leggere e a collegare lettura e scrittura. Perché, come sostengono anche studi recenti, scrivere da ciò che si legge o di ciò che si legge aiuta la comprensione. E noi, credo, proprio di comprendere abbiamo bisogno. O di rassegnarsi alla non comprensione come frutto però di un lavoro collettivo alla ricerca del significato condiviso in una comunità di persone che leggono e scrivono insieme.

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