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Orientamento: responsabilità, tecnicismi e questioni aperte

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Dalle accuse di docenti e di genitori in caso di orientamento che non porta ai risultati sperati alle scelte “obbligate” delle fasce più deboli: che fare?


Orientamento è una parola che gli insegnanti delle scuole medie conoscono bene: rimbomba nei consigli di classe, nei collegi dei docenti e suscita una certa apprensione. Chiamate per legge a far fronte ad una responsabilità gravosa –  indirizzare degli alunni di terza media alla scelta della scuola superiore – le scuole investono soldi e tempo, incaricano una Funzione Strumentale, entrano – talvolta – in uno stato d’ansia. Sì perché orientare non è per nulla facile ed espone le scuole medie ad un rischio non da poco: i fallimenti degli alunni alla secondaria di secondo grado vengono spesso imputati agli indirizzi ‘sbagliati’ suggeriti dagli insegnanti di grado inferiore, accusati di superficialità o di incapacità nelle valutazioni. Di qui ansie auto-valutative e crisi di coscienza: saremo bravi ad orientare?

alla scuola non si può chiedere, in definitiva, di predire il futuro

Se avesse seguito il nostro consiglio, invece di quello degli insegnanti...” avranno detto senz’altro in tanti genitori. Questo è, infatti, un altro dei dilemmi: in caso di opinioni diverse tra scuola e famiglia, quale scuola scegliere? La questione è che, purtroppo o per fortuna, una soluzione non c’è: i docenti tengono conto del percorso complessivo dell’alunno nel corso dei tre anni di scuola media, delle sue attitudini, abilità e competenze ma non sono in grado, ovviamente, di prevedere gli sviluppi e gli esiti futuri: tutto può cambiare, tanto più in un ragazzo/a di quell’età, e di questo forse occorrerebbe prendere atto senza ansie immotivate. Alle superiori l’alunno/a potrà fare un percorso diverso dal previsto, maturare scelte attitudini e inclinazioni altre rispetto a quelle previste, e non sarà necessariamente un dramma: alla scuola non si può chiedere, in definitiva, di predire il futuro, né ai genitori stessi che conoscono – o dovrebbero conoscere – ancora meglio i propri figli.

a indirizzare le scelte sono anche – per non dire soprattutto – gli status di appartenenza sociale

Una questione dolorosamente aperta rimane quella ‘classista’, confermata anche dai dati più recenti: a indirizzare le scelte sono anche – per non dire soprattutto – gli status di appartenenza sociale, per cui le famiglie dei ceti bassi si orientano – e vengono orientate dalle scuole – prevalentemente verso scuole professionali e, all’inverso, per le famiglie dei ceti alti appare ‘obbligata’ la scelta verso i licei. Il costo degli studi, la fretta che il figlio possa trovare un impiego lavorativo sono ancora elementi presenti nelle scelte dell’indirizzo di studi, nonostante tutti i progressi rispetto alla scuola rigidamente classista di alcuni decenni or sono. Una questione e un problema ancora più urgenti nelle famiglie di immigrati, spesso alle prese con difficoltà materiali e di integrazione che naturalmente indirizzano i figli verso gli istituti professionali, vista anche la pressoché totale assenza di corsi di alfabetizzazione presso le scuole superiori. In un’Italia che cambia, si profila forse una nuova e diversa forma di classismo.

Neanche in questo campo le indicazioni ministeriali sono sfuggite, negli ultimi anni, ad un surplus di tecnicalità: agli insegnanti vengono fornite schede di valutazione, griglie e quant’altro al fine di identificare e catalogare gusti, attitudini, orientamenti dell’alunno, in modo da “non sbagliare”. Libri e questionari pullulano di domande su gusti, attitudini, persino “obiettivi professionali” che, ci si lasci dire, in un ragazzo di terza media appaiono prospettive un po’ lontane e forzate, segno di una concezione della scuola votata quasi unicamente a costruire nuove pedine di un ingranaggio lavorativo che – tra l’altro – sta piano piano implodendo. Non sarebbe forse meglio anche qui abbandonare o ridimensionare l’aspetto ‘tecnico’ e privilegiare quello umano (umanistico) che vorrebbe la scuola luogo di formazione complessiva dell’alunno in grado poi, in base ad un proprio sviluppo autonomo, di operare delle scelte (e poi eventualmente – perché no? – cambiarle)? Meno tabelle e questionari sulle life skills (un termine che, solo a pronunciarlo, mi fa impressione) e più spazio alla riflessione collettiva e individuale: questa, a mio avviso, una strada possibile per una scuola che potrebbe ritrovare un senso di sé nella propria vocazione umanistica.

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Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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