È uscito da poco il “nuovo Pinocchio” di Guillermo del Toro…parliamone insieme!
Il racconto di Pinocchio di Collodi è senza dubbio un grande classico non solo della letteratura, ma anche dell’illustrazione e del cinema, a partire dalla prima versione, girata nel 1911 da Giulio Antamoro con Ferdinand Guillaume nei panni del burattino.
65 versioni cinematografiche, passando per quella a disegni animati del 1940 della Walt Disney (splendida, con le magnifiche musiche di Leigh Harline e Paul J. Smith, ancorché con una curiosa ambientazione tirolese; versione ripresa lo scorso anno in live action da Robert Zemeckis con un film brutto fino all’imbarazzante) e per quelle italiane più recenti di Roberto Benigni prima e di Matteo Garrone poi.
Se dovessimo stilare una classifica…
Piazzeremmo al primo posto ancora e sempre quella televisiva di Luigi Comencini (1972, con le musiche di Fiorenzo Carpi e Nino Manfredi come Geppetto), ma assegneremmo oggi il pari merito al capolavoro in stop-motion di del Toro e Gustafson.
Prima di tutto per la scelta di realizzare il film con l’ausilio del digitale come “facilitatore” tecnico – ma non assegnando ad esso la priorità espressiva – interamente con marionette animate a passo uno.
Per questo ci sentiamo di consigliare anche la visione dei trenta minuti di speciale, disponibili sempre su Netflix, nei quali si riassumono le fasi tecniche della produzione.
La volontà espressiva di Guillermo del Toro
Scelta, come ha dichiarato lo stesso Guillermo del Toro, che è stata innanzitutto dettata da una volontà espressiva.
Un burattino in un mondo interamente fatto di burattini e marionette fa risaltare ancor meglio le caratteristiche che lo rendono diverso dagli altri.
E’ poi praticamente impossibile render conto dello splendore della realizzazione tecnica sia dei personaggi che degli ambienti che delle fasi di riprese, perché bisognerebbe analizzare sequenza per sequenza, se non persino fotogramma per fotogramma.
Non la solita riproduzione pedissequa dei personaggi
Non ci si attenda una riproposizione pedissequa dei vari passaggi del racconto collodiano.
Anzi: assume una rilevanza fondamentale la figura del Grillo parlante, non c’è la Fata turchina, il Gatto e la Volpe vengono riassunti in un unico e originalissimo personaggio, Mangiafuoco diventa una comparsa e così via.
Ci piace qui ricordare – senza rivelazioni che rovinino il gusto di una visione indispensabile e forse anche da ripetere più volte per gustare meglio i mille particolari del film – come è stata costruito il personaggio di Lucignolo. In un modo che non solo risulta perfettamente coerente con il tipo di storia che si è scelto di raccontare, ma che è davvero inedito e sorprendente.
Forse – è una interpretazione personale, suscettibile di esser smentita in futuro – con questo suo Pinocchio Guillermo del Toro ha voluto concludere una trilogia sul fascismo e sulla morte.
Iniziata con due splendidi film come La spina del diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006), non a caso entrambi ambientati in Spagna durante la Guerra civile, e posta a compimento con questo capolavoro.
Il fascismo, come lo ha definito Roland Barthes, inteso non tanto come impedimento a dire e ad esprimersi, ma come costrizione a dire tutti le stesse cose e ad esprimersi tutti nello stesso modo.
In questo senso Pinocchio è antifascista in modo programmatico e strutturale, in quanto ciocco di legno che ha preso vita e che deve imparare a dire e ad esprimersi in forme e linguaggi affatto diversi dalla maggioranza succube o acquiescente.
E lo può fare perché appartiene di diritto al territorio del fantastico, nel quale la morte è abitante con piena cittadinanza.
Anzi, ne è elemento imprescindibile, perché senza il senso della morte e le mille funambolerie ideate per sfuggirle il fantastico non esisterebbe proprio.
Ma il Pinocchio di Guillermo del Toro è un film per bambini?
La domanda classica che sorge sempre a questo punto… No, verrebbe da dire, se dei bambini e delle bambine continuiamo ad avere un’idea stereotipata e li pensiamo come esseri incapaci di appassionarsi al mistero della vita.
Come esseri da tenere in una zona di conforto – spesso ingannevole e falsa quanto le mille occasioni di consumo effimero alle quali li sottoponiamo – nel quale siano garantiti buoni sentimenti, assenza di conflitti e lieti fini.
E invece sì, altroché se lo è, vorremmo ribadire. Forse facendo attenzione alle fasce di età più tenere (diciamo scuola dell’infanzia), perché Guillermo del Toro è regista che ama anche momenti di oscurità e di tensione.
Ma da lì in poi – sempre con adulti al fianco, perché questa è secondo noi regola imprescindibile di ogni visione approfondita – questo è un film che non dovrebbe mancare nella cultura cinematografica di ogni bambino e di ogni bambina.
La figura di Pinocchio ritratta dal regista
E c’è, come ultima di una serie di notazioni che non esauriscono quelle possibili, la questione di Pinocchio come figura cristologica.
Suggeriamo solo (nulla va rivelato per non guastare il gusto della visione) di fare attenzione al braccio del crocifisso costruito all’inizio della storia da Geppetto per la chiesa del paese in cui abita con il figlio Carlo (poteva chiamarsi in un altro modo, vista la paternità letteraria del racconto?) e al braccio del burattino nella sequenza che precede il finale.
Nella – apparentemente semplice, ma con tutta evidenza meditata a lungo e con un’efficacia narrativa e di senso insuperabile – scelta di metter l’accento su una mancanza, sta tutta la forza del grande cinema di portare in primo piano, agli occhi e nella mente dello spettatore, qui davvero invitato a formare con il suo sguardo tutta l’intelligenza del racconto, una presenza.