Istituto Professionale

Materie umanistiche al Professionale: perché insegnarle gratifica l’insegnante.

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Dare la parola a tutti, fornendo un senso critico che guiderà le scelte di vita dei ragazzi: il punto di vista di un’insegnante di italiano e storia all’Istituto Professionale.

Una volta quando dissi ad una collega che avevo avuto il trasferimento all’Istituto Professionale, questa mi disse:” Poverina!”. Non sapeva che nell’elenco delle scuole lo avevo indicato al primo posto. Era la mia prima scelta. Proverò qui a motivarne il perché.

Insegnare italiano e storia ai manutentori meccanici sembra a volte o assurdo o impossibile. Non è facile certo. Ma non perché a priori come spesso si crede questi studenti “Non sono portati per queste discipline”. È una mistificazione e un inganno. Se mai perché spesso la loro storia pregressa di studenti li ha convinti a non esserlo, a non essere in grado né di leggere né di scrivere. Sarebbe lungo ( e doloroso per me) indagare come ció sia avvenuto, ma avviene.

La didattica del FARE

Dunque spesso abbiamo davanti studenti “stanchi” di essere studenti. Delusi, demotivati, che si aggrappano alla scuola come ultima speranza. La odiano spesso ma ci vengono ugualmente e questo ci dovrebbe far riflettere molto. Il primo nostro lavoro è dunque ricostruire la motivazione. E come si fa? Si fa progettando una didattica del fare, con compiti autentici. Che vuol dire? Vuol dire prediligere prima attività didattiche laboratoriali e cercare di fabbricare senso.

Un compito si dice autentico se riveste significato non solo per chi lo propone ma soprattutto per chi lo riceve. La costruzione condivisa di significato è fondamentale non solo se si legge o si scriv,e ma appunto se lo attribuiamo ad attività ( qualsiasi ) di studio o da svolgere. Sembra facile, non lo è.

Tutti noi oramai sappiamo che si impara solo attraverso emozione, motivazione, coinvolgimento. La didattica in fondo non è altro che questo. Saper creare occasioni di apprendimento per tutti. Non per quelli che già lo fanno o lo farebbero, ma per tutti quelli che mi sono stati affidati.

Dunque tornando alle mie discipline, il primo passo è fare sì che si sentano in grado di leggere e di scrivere. Una bella sfida. Ma non perché retoricamente ( come dicono i ragazzi) è cultura, semplicemente perché è un loro diritto ed è una competenza chiave imprescindibile di cittadinanza. Tutti, proprio tutti possono leggere e tutti possono scrivere. Dipende solo da come tu lo proponi, dall’ambiente di apprendimento che crei, dalla fiducia che si respira e dalla sospensione del giudizio. Un ambiente fortemente giudicante non aiuta ad imparare.

Il compito del docente

Compito del docente non è giudicare le persone ma caso mai valutare la prestazione. Spesso invece facciamo sempre solo la prima delle due cose. Valutare vuol dire “ dare valore” non esprimere giudizi su chi esegue un compito. C’è differenza, una differenza enorme. Gli alunni non valgono “4” o “10”, non sono un numero sul registro, caso mai quei numeri rappresentano l’andamento di una prestazione che può sempre migliorare. Per questo spesso i percorsi scolastici si trasformano in profezie che si auto avverano: perché le etichette appiccicate addosso all’inizio poi spesso non si staccano più. Io cerco nel mio piccolo di incontrare persone in primis. Poi di lavorare con loro per renderle consapevoli delle loro potenzialità e del loro poter essere e quindi poter fare. Non perdo mai di vista il mio obiettivo: progettare azioni didattiche dotate di senso.

Il Writing and Reading Workshop

Ammetto di avere con me uno strumento potente: il laboratorio di lettura e scrittura la metodologia americana detta WRW cioè Writing and Reading Workshop. Se non l’avessi incontrata credo che farei molta e molta più fatica. Il modo di lavorare in laboratorio mi ha insegnato prima di tutto una cosa importante: la differenza tra riempire il tempo e impiegare il tempo.

Nel primo caso il focus è il docente, nel secondo lo studente. Intendo dire che la domanda chiave che noi ci dobbiamo fare come docenti è funziona? Sono efficace? Ho progettato azioni didattiche utili per chi le deve mettere in atto con me? Se così non è allora devo prima di tutto fare metacognizione sul mio modo di lavorare e di intendere l’insegnamento.

In secondo luogo con il WRW si crea un ambiente di apprendimento dove tutti possono lavorare perché si mette al centro il processo non si richiedono solo prodotti. Lì sta tutta la differenza. Lavorare sul processo è lavorare davvero sulle competenze. È smontare una finish line ( traguardo come da normativa) in step su cui agire per provare a portare TUTTI gli allievi verso quel traguardo.

Per ogni step progetto lezioni ( molto brevi) su strategie di lavoro da applicare subito. Si impara facendo non solo ascoltando. La didattica tradizionale frontale non funziona soprattutto per questo motivo: non costruisce percorsi di apprendimento ma lascia allo studente da solo la responsabilità di apprendere. Per questo in molti casi fallisce. La responsabilità invece è mia come docente e la devo condividere con lo
studente.

In pratica il WRW si configura come una didattica equitativa? Sì. Perché? Perché imposta il tempo di apprendimento a scuola e non a casa. Lavora su un apprendimento in classe per tutti e in modo laboratoriale non demandando detto tempo ad attività individuali casalinghe dove è ovvio che le disuguaglianze socio culturali fanno un’enorme differenza. Il WRW lavora nel tentativo di creare autonomia nello studente: si cerca quindi di lasciare ad ognuno il suo spazio e il suo tempo, di costruire insieme in classe un percorso che offre a tutti gli stessi strumenti ma anche la possibilità di impara ad usarli da solo nel rispetto delle caratteristiche individuali di ognuno. Si configura dunque come una didattica altamente inclusiva.

Tornando al “perché”

Tornando ora al problema iniziale e cioè perché insegnare italiano e storia all’istituto professionale appare chiara la risposta. Queste non sono discipline qualsiasi ma sono assolutamente ( come quasi tutte del resto) trasversali. Sono strumenti di cittadinanza. Proprio e a maggior ragione in questi istituti sono necessarie perché altrimenti toglieremm ai nostri studenti un’occasione di crescita fondamentale. Ma non perché “ è cultura” come si diceva prima. Semplicemente perché nessuno deve essere escluso dal potere e dalla bellezza che l’uso della parola conferisce a chiunque.

Il problema infatti non è sapere chi è Dante, ma se mai sapere perché Dante è oggi significativo per me, che ho 17 anni e voglio fare, ad esempio, il manutentore meccanico. È sapere cosa ci potrei fare con questo Dante, che pensieri potrei trarre dai suoi versi, che connessioni con la mia vita.

Siamo tutti convinti infatti che Dante sia imprescindibile ma spesso lo trasformiamo solo in un esercizio pedante per applicare astratte griglie interpretative. C’è molto da riflettere su questo, come si intuisce.
Nelle mie classi leggere e scrivere sono attrezzi di laboratorio come tanti altri. Vanno a riempire una cassetta virtuale che dovrebbe far parte del patrimonio di tutti, ma proprio di tutti semplicemente perché i ragazzi sono persone che devono poter operare scelte consapevoli sulla propria vita e sul proprio futuro.

Come ci ricorda sempre Vanessa Roghi, Rodari scrisse “ tutti gli usi delle parole a tutti”. Ecco: questo è il senso ultimo del lavoro che dobbiamo svolgere. Ed è nella ricerca di questo senso ultimo che cerchiamo di lavorare con fatica ma con speranza dentro alle nostre classi: dare parole a tutti perché ne facciano buon uso.

Foto di copertina di Dan Dimmock su Unsplash

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